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La Gemella

Ho quindici anni. E' estate. Vacanza. Mattina presto. Io e la mia gemella Silvia andiamo al fiume. Lei è appassionata d'insetti, li cerca e li studia. Da grande, sarà entomologa. Io non lo so che cosa sarò da grande. A me, oggi, ora, piace andare a pescare e passare il mio tempo con lei. In una mano tengo la mia canna, 5 metri; porto a tracolla un cestino di giunco che contiene un barattolo per i cagnotti e un sacchetto con la pastura al formaggio. 
Silvia cammina quasi di corsa, faccio fatica a tenerle dietro. "Ma perché corri così?" le chiedo.
"Perché ho le gambe lunghe lunghe." Sorride e non rallenta quel suo passo leggero e velocissimo.
Correndole accanto, le prendo la mano: "Che cosa vuoi cercare oggi? non te l'ho chiesto..."
"Lo Sphex Funerarius, un imenottero." 
"Una specie di vespa?"
Annuisce, le brillano gli occhi: "Voglio trovare una femmina. La femmina ha le gambe rosse, di un rosso vivo, lucente, e anche l'addome è rosso. Il torace è sporco di fango perché solo le femmine scavano e si sporcano. Le ali sembrano di vetro, ombrate di nero. I peli sulla fronte sono argentei. Il colore delle tegule è ancora il rosso. Rosso sangue."
Non me ne frega niente degli insetti e dei loro colori e non so che cosa siano le tegule ma niente mi fa più felice del suono della voce di Silvia. Siamo gemelli dizigoti, fisicamente non ci somigliamo molto. Lei è bella.
Arriviamo al fiume. Oggi c'è il sole ma la notte scorsa ha piovuto. L'argine è fangoso. Camminiamo nel fango. 
"Devi sapere..." continua Silvia "... che la femmina dello Sphex Funerarius possiede un piccolo bisturi e lo usa come un microchirurgo. Attacca l’Efippigero delle vigne con colpi precisi ai gangli toracici..." 
"L'epi-che cosa?"
"Efippigero. E' una cavalletta con le ali atrofizzate, le piace l'uva!" risponde Silvia come se fosse una cosa risaputa da tutti. "La femmina dello Sphex Funerarius comprime i gangli cervicali dell’Efippigero e lo paralizza completamente senza ucciderlo, non succede mai che gli provochi la morte..." Silvia abbassa la voce, mi stringe il polso, sta raccontando un film dell'orrore: "... allora trascina la vittima in fondo alla tana che ha preparato, una buca sottoterra. Poi apre un piccolo varco nel petto della vittima, depone un uovo e la abbandona sepolta viva nel fondo della buca che richiude ben bene. La larva che uscirà dall’uovo della Sphex troverà selvaggina abbondante, immobile, inoffensiva e viva. Una volta che avrà finito di divorare la cavalletta, il giovane  Sphex sarà pronto a uscire nel mondo, si scaverà la via verso la superfice e verrà alla luce."
"Ma esistono degli insetti buoni? Non crudeli?" le chiedo.
"La natura è crudele. Gli animali sono crudeli. Gli uomini peggio."
Pronunciata la sua sentenza senza appello, Silvia si allontana alla ricerca dei suoi insetti ributtanti. Io monto la canna, getto la pastura nell'ansa del fiume dove spero di attirare delle carpe, attacco tre, quattro cagnotti all'amo e lancio. E aspetto. 
C’è un silenzio irreale, tace anche l'acqua del fiume. Mi volto nella direzione presa da Silvia: sta cercando la sua femmina di Sphex tra i pioppi e i salici, in mezzo a dei fiori ancora chiusi, alti almeno un metro. Sono la Maeraviglia Gialla, mi aveva spiegato un giorno, si aprono solo al tramonto; la denominazione scientifica è Œnothera che vuol dire desiderio di bere il vino. 
Silvia, i pioppi, i salici e i lunghi steli della Meraviglia Gialla sono improvvisamente investiti da un colpo di luce accecante: il sole ha squarciato la bruma che anche in questa mattina d'estate scivolava sull'Adige. La mia gemella, piegata tra i fiori ubriaconi, si riflette nell'acqua, le chiome dei salici si confondono, nel riflesso, con i suoi capelli neri. E' talmente incantevole che mi sembra che gli occhi mi si riempiano di lacrime ma ecco che uno strappo al polso mi risveglia e mi scuote tutto, come se fosse stato provocato da una corrente elettrica che in un lampo, partita da sott'acqua, attraverso il filo, la canna e la mano, avesse raggiunto la mia testa. Una carpa sta abboccando, assaggia l'esca, la tira, l'acqua intorno al galleggiante ribolle, poi una decisa vibrazione e via! La mia preda parte, tirando con forza, dando strattoni violenti, metri e metri di filo srotolato, ho il cuore in gola per l'eccitazione, resisto, è una grossa carpa selvaggia, risale la corrente attaccata al fondo, sarà una battaglia dura, non si arrenderà facilmente. La seguo lungo l'arigine, salto, corro, rallento, con il terrore che il filo si spezzi, che il terminale si aggrovigli, con il terrore di perderlo, questo pesce potente, la più grande preda mai abboccata a un mio amo. Finalmente mi pare di sentire che si stia stancando, forse lo immagino soltanto ma decido di bloccare il filo e punto i piedi su un sasso. Comincio, piano, a tirare. Ansimo, ho la bocca piena di saliva, sono gonfio di eccitazione. E di gioia. In questo preciso momento un grido corre sul fiume, viene da lontano ma mi spacca i timpani. Silvia ha gridato. Mi volto verso di lei, mi sono allontanato tanto, è una figurina appena visibile. Sta cadendo per terra. Lascio la canna, la carpa, la mia lotta, la mia conquista e corro da lei, Silviaaaaa, corro, la raggiungo, "non vedo più!" urla "… aiutami, non vedo più!" e si preme la testa con tutte e due le mani. Mi butto in ginocchio accanto a lei, le prendo il viso, esce sangue dal naso, Silvia mi fissa con gli occhi sbarrati ma sembra che non mi veda, che cos'ha? che cosa è stato? è stata punta di un insetto velenoso? cosa devo fare? cosa devo fareeeee? non mi risponde, penso di correre in paese a chiedere aiuto, ma la lascio sola? e se la sollevo e la porto via sulle spalle? forse però non devo muoverla? Tremo, sussurro il suo nome, ripetendolo infinite volte. Pochi secondi ed è già immobile. Il cuore non batte più. Silvia è morta e io sono sdraiato accanto a lei. 
Aneurisma all'arteria comunicante anteriore, dirà l'autopsia. 
Silvia è morta ma il suo corpo è ancora caldo. Io, immobile contro di lei, sono più freddo del fango. Niente e nessuno potrà mai più riscaldarmi. Quel giorno è finita la mia adolescenza, è finita la mia giovinezza. Quel giorno sono diventato vecchio.

 

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