L'AMORE NEL PALMO DELLA MANO
Un giovane psichiatra neolaureato alle prese con una ragazza chiusa in manicomio e dichiarata irrecuperabile. Sono gli anni sessanta. Lui se ne innamora e la vuole curare -parrebbe- invano. Autorità mediche e famiglia di lei cercano di impedirglielo. Due storie, le loro, che affondano le radici nelle tragedie italiane della prima metà del XX° secolo, il secolo breve, l’era dei grandi cataclismi.
da LA STAMPA
(Sergio Pent)
Accade, nei romanzi nati esclusivamente per prodigare un antico e un po’ accantonato piacere di lettura, che i significati intrinseci e le metafore esistenziali si confrontino solo e soltanto nella volontà di chi legge di trovar riscontro a un proprio intimo dolore, a un’esperienza, a un mancato appuntamento col destino (…) Il racconto doloroso e angosciato di Battiato -una sorta di fiaba intrecciata con lieto fine non indenne da inguadabili cicatrici- si evolve e si risolve soprattutto nella sua essenziale intraprendenza comunicativa, il più bel regalo che un romanziere possa condividere con i suoi immaginari, ipotetici lettori (…) Si chiude il libro ringraziando che ci sia ancora qualcuno in grado di farci soffermare in poltrona a seguire una bella storia, dove le emozioni sembrano padrone di un giusto, umano spazio di appartenenza.
da IL GIORNALE
(Mario Santagostini)
Un romanzo fra i più interessanti, anomali, intensi di quest’anno (…) Forse, l’autentico protagonista del libro è il silenzio, o è la falsità che omette eventi, cancella, nasconde colpe, illude che la realtà possa essere dimenticata, abolita, interrata, riscritta. E invece cova, continua a lavorare di nascosto. Insomma, la verità, anche se occultata o offuscata, lascia tracce, segni. Rimane, assume le forme impreviste del rimosso. E i suoi effetti sono devastanti.
da SEGNALIBRO
Come raccontare il dolore che graffia sui nervi e corrode la ragione? Come lenire le urla fredde di chi e tradito senza un perché? Come ricondurre alla pace dei giorni chi ha visto il dolore fisso negli occhi? Non si impara a guarire dal male se non ci si lascia convincere dall'amore. Uno psichiatra ostinato, una ragazza perduta, una vecchia aristocratica che ritrova la gioia al vivere, per una storia da non perdere.
Due frammenti...
I genitori di Loredana non erano felici che la loro figlia si fosse innamorata di me. Un bravo ragazzo, sì, laureato, dottore, ma senza un soldo. E senza genitori. Dall’età di tre anni ero cresciuto con i nonni materni. Abitavamo un piccolo appartamento al piano terra con un fazzoletto di orto nella periferia di Milano, dietro a viale Zara. Mio nonno era operaio alla Pirelli. Ricordo i baffi bianchi e gli occhi azzurri. In quegli occhi azzurri, ogni volta che mi guardavano, c’era il riflesso della vergogna. Mia madre, sua figlia, gli aveva macchiato la vita. Lui morì quando avevo quattordici anni. Mi aveva dato molte risposte, come funziona un motore a scoppio, come corre il nutrimento dalla terra fino ai grappoli dell’uva che regalava l’ombra al piccolo orto, come il vento faceva bollire i mari, come le formiche raccoglievano scorte e le cicale cantavano. Dell’anima, delle sue complicazioni, non mi parlò mai. Fino al giorno in cui capì che se ne andava. Lo vedo ancora barcollare nell’orto verso l’insalata premendosi una mano sul ventre. Un tumore all’intestino aveva già finito il suo lavoro. Cadde nelle foglie di lattuga. All’ospedale bestemmiò per tre giorni. Alla fine le suore ottennero la confessione e l’estrema unzione. Erano le padrone avare della morfina e del dolore. Era stato un uomo robusto, divenne una specie di scheletro. Lo andavo a trovare tutti giorni. L’ultima volta mi strinse la faccia nelle ossa delle sue mani. Mi disse che c’erano domande alle quali non aveva saputo rispondere né per sé né per me. Mi scongiurò di non pensare a mia madre; non si può passare la vita, mi disse, odiando la madre e interrogandosi su di lei. I matti, aggiunse, non si spiegano e si perdonano. Dovevo invece onorare la memoria di mio padre; lui lo aveva molto stimato malgrado fosse un siciliano. Io non avevo memoria dei miei genitori e nascondevo anche a me stesso il lutto e il rimpianto. Per quanto li cercassi, non trovavo alcun impulso di odio. Ero un adolescente che guardava alla vita con ubbidienza e giocava a calcio, con gli amici della scuola, in difesa.
Il nonno mi diede una grossa busta, piena di fogli. Era una lettera di mio padre per me. Mi ordinò di leggerla soltanto al compimento dei diciotto anni. Mio nonno era un uomo semplice, con idee pedagogiche all’antica; il contenuto della lettera lo aveva turbato. In attesa di essere anagraficamente in diritto di conoscere le parole di mio padre, passai il plico alla nonna che piangeva senza singhiozzare.
Restai con nonna Teresa che faceva la sarta e non dormiva per farmi studiare. Non mi parlò mai della mamma. Quando glielo chiesi esplicitamente restò muta. Non voleva ricordare la figlia. Mi convinsi che esisteva un gesto, quello dell’abbandono, capace di cancellare negli esseri umani anche i sentimenti più primitivi e sacri e scatenare rancori sordi e furori. Non riuscivo a capirlo. Era un mistero che accompagnava il mio quotidiano malessere, era anzi il corpo stesso del mio malessere. Mi credetti diverso. Ero convinto che l’abbandono, la perdita, la morte non fossero capaci di turbare la mia prima giovinezza più dei temporali. Dedicai tutte lei mie angosce e le mie furie alla riuscita nello studio. Mi laureai con due anni di anticipo.
Avveniva spesso, nei manicomi, che i casi non trattabili fossero scaricati all’ultimo medico arrivato, al più giovane, al più debole. Così accadde che mi fu affidato, tra gli altri, il caso di Elisa Pietropan. Ero lo psichiatra responsabile della terapia ordinaria. Non potevo prendere alcuna decisione perché non era consentito uscire dai binari del protocollo.
Elisa era ricoverata nell’Istituto da un anno. Si trattava, secondo le cartelle cliniche, di un caso di demenza precoce in irreversibile deterioramento. Quando accadevano episodi di aggressività parossistica contro di sé e contro gli altri, la ragazza veniva sottoposta a terapia elettroconvulsivante (l’elettroshock amato e praticato a ritmi forzati dal professor Lerco).
Considerata la costante minaccia di scoppi di violenza, raccomandavano di tenerla legata. Elisa aveva smesso di nutrirsi da sola. Doveva essere imboccata. O sostenuta per via parenterale nel caso rifiutasse il cibo, lo sputasse o vomitasse.
Le anamnesi parlavano di un quadro morboso del tutto negativo, con perdita totale della compassione, del senso di convenienza, dello schifo e del pudore. Incapacità di percepire lo spazio, completo ottundimento, azioni insensate e distruttive, assenza di realtà.
Gli esami avevano escluso componenti neuropatologiche, infettive, neurochimiche o genetiche che potessero condurre a una origine cerebrale organica della malattia. In parole povere: la scienza non ci diceva perché Elisa soffrisse, perché il terrore fosse padrone di lei. Sapevamo soltanto che stava male. E che dovevamo imprigionare la sua volontà sconvolta, anestetizzare il suo cervello furioso.
La malattia aveva esordito tre anni prima, secondo quanto riferivano i genitori, con inspiegabili scatti di rabbia. Poi, l’esplosione: una notte Elisa aveva aggredito la madre ferendola gravemente con un coltello. In seguito a questo episodio si era ritirata in un mutismo e in un isolamento sempre più impenetrabili, che si alternavano a scoppi di eccitazione e violenza estremi. Secondo i miei superiori, il borderline tra coscienza e follia era stato ampiamente superato e non vi era più alcun ragionevole dubbio che una remissione dei sintomi cronici della schizofrenia fosse, per Elisa, da ritenersi possibile.
L’unico elemento di realtà al quale sembrava attaccarsi ancora era il violino. Prima del male lo aveva studiato con passione e con risultati brillanti. Poi aveva smesso di suonarlo. In Istituto, dicono le relazioni, non si era mai udita una nota. Se però il violino le veniva sottratto, Elisa si abbandonava alla disperazione, o ad agitazioni furiose. I genitori, considerando il valore dello strumento che le avevano a suo tempo regalato, pensarono di sostituirlo con un qualunque pezzo di legno. “Era un capitale inutilizzato e a rischio”, aveva dichiarato il padre. Elisa si era scagliata contro le pareti della stanza per fracassarsi la testa. I genitori, alla fine, le avevano lasciato il violino. La direzione sanitaria teneva a sottolineare che lo strumento, qualora la paziente fosse stata liberata dalle cinghie di contenzione, “avrebbe potuto essere usato come arma impropria; per tale motivo raccomanda vigilanza al personale medico e paramedico”.
Non avevo mai pensato al violino come arma impropria. Mozart, in un accesso di gelosia, che lo fracassa sulla testa di Costanza. Paganini che infila l’archetto nell’occhio di una prostituta tedesca perché vuole troppi soldi. Elisa che frantuma il suo Maggini scordato sulla faccia del professor Lerco.
Per due anni Elisa era stata curata in una clinica privata dove avevano anche tentato, senza risultati, un approccio psicoanalitico. Ma poi i genitori l’avevano mandata al Sant’Orsola, una struttura pubblica dove, “senza inutile dispendio di denaro” la figlia avrebbe potuto essere osservata e curata, “non avevano dubbi”, nel migliore dei modi.
In una delle tante relazioni sul caso di Elisa Pietropan, un appunto informava che a un esame ginecologico, “la paziente era risultata vergine”.
Dovunque il professor Lerco mettesse il suo timbro, aggiungeva, a penna: “Non vi sono, allo stato attuale, speranze di guarigione”.
Una condanna a morte di una ragazza vergine di vent’anni, esaminata e giudicata da psichiatri che si ritenevano i padroni dell’ordine e del disordine. La osservavano, la classificavano e se ne lavavano le mani. Elisa, come tanti altri malati aggressivi, rifiutanti, perturbanti, era per loro l’”inaccettabile”.
Elisa è bella.
Sì, alla seconda visita arrivai mentre due infermiere con gli stivali di gomma lavavano lei e la stanza. Usavano una pompa e sembrava che l’annaffiassero, come una pianta d’estate. Elisa era sdraiata in terra, nuda, e teneva sollevato il violino. Quello non doveva bagnarsi. Le infermiere la rivestirono di un camicione bianco.
La osservai prima che si cospargesse delle proprie feci, seguendo una ritualità codificata e bestiale. La vidi com’era. Bella. Vidi come avrebbe potuto essere ancora più bella se soltanto gli occhi avessero perso il velo che li annebbiava, se soltanto la cera che ricopriva la sua pelle si fosse sciolta. Bella, se i suoi pezzi si fossero ricongiunti. Se avesse potuto muovere i muscoli abbandonati attorno alle ossa. E camminare e correre.
Si radicò la mia convinzione che il verdetto dei medici che stavano sopra di me fosse inaccettabile. Non potevo pensare che per questa ragazza non fossero previste alternative di vita o di speranza e che il suo unico futuro possibile fosse di stare legata in attesa della morte. Decisi di soffocare gli echi che i miei studi recenti e i principi a cui si ispiravano facevano ancora risuonare: “Non sciuperò mai il tempo della mia vita in una speranza inutile e vana, alla ricerca di ciò che non può esistere. Neppure gli dei lottano contro la necessità.” Io non volli considerare il male di Elisa necessario. Lei, quasi per dimostrarmi che avevo torto, non reagì a nessuno dei miei tentativi di comunicazione. La imboccavo, la lavavo, le parlavo, la cullavo. Lei mi lasciava fare, ma non rispondeva. Non “suonò” più il violino. Mi scontrai con l’Istituzione in cui lavoravo e i cui metodi non condividevo. Proposi al professor Lerco di ridurre le dosi dei farmaci, di modificare la terapia, di permettere a Elisa di uscire, senza cinghie. Risposta: negativo.