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Furbo, Presuntuoso e Incazzoso. Un Genio.

(Rilettura di una autobiografia)


“Sono il maggior uomo che nascessi mai, pieno di tante professioni... il primo uomo del mondo!” E ancora: “Volevo sollevare sulla terra un rumore di meraviglia inestimabile...” E ancora: “...Ero nato libero e libero volevo restare... volevo essere mio e non di altri, e chi mi voleva mi chiedesse a me...”
Che coraggioso compiacimento narcisistico e raffinato della propria persona e delle proprie qualità, che ingenua spudoratezza in questo fiorentino che fa della sua vita un romanzo crudo, a volte bugiardo, spesso inconsciamente spietato con se stesso e crudele con gli altri! Che fascino psicologico e immediatamente visivo hanno i suoi racconti, affreschi di un estremo realismo e nello stesso tempo con i tratti magici e mitici di una epoca quasi immaginaria! Straordinaria incarnazione dell’italiano del Rinascimento. È di Benvenuto Cellini che parlo, nato nell’anno millecinquecento. L’orafo, forse il più grande nella storia dell’oreficeria. E lo scultore del Perseo, oggi in piazza della Signoria a Firenze.

Guido Davico Bonino, nella sua introduzione all’Einaudiana LA VITA di Benvenuto di M° Giovanni Cellini scritta (per lui medesimo) in Firenze, dice trattarsi della “prima Autobiografia dell’Intellettuale Moderno nella misura in cui l’alienazione dell’artista ne è la struttura; e la ribellione del protagonista all’alienazione ne è il tema.”

Benvenuto è un geniale mascalzone, un narciso fottuto, un sublime fabbricante di gioielli, di articoli di lusso, un arrivista, un violento (“uomo terribilissimo” lo definisce il Vasari), un sognatore nevrotico o meglio un delirante, un uomo che non ha paura di nulla se non di non riuscire a lasciare un segno eterno del proprio “meraviglioso” passaggio sulla terra.
Un personaggio odioso dunque? Al contrario, Benvenuto riesce a comunicare una grandissima simpatia e un altrettanto grande affetto. Perchè dietro alla facciata aggressiva, beffarda, narcisistica c'è un ribelle vero in lotta prima di tutto con se stesso (riesce a guastare tutte le fortune materiali e morali che conquista) e poi contro l'alienazione che vivono gli artisti. Ecco un elemento della biografia celliniana così immediatamente riportabile ai giorni nostri: l'opera d'arte è merce, legata al valore del mercato, al successo dell'artista e al capriccio di chi paga. Il talento è altra cosa. La rabbia e la ribellione di Benvenuto contro questa realtà lo conducono fino all'assassinio.
Nella sua esistenza, Benvenuto Cellini ha dispensato senza risparmio colpi di pugnale e gesti eroici, amori con le donne e coi garzoni di bottega, intimità coi potenti e malattie con le prostitute, disprezzo della morale e pentimenti disperati, onori e ricchezza e miseria e prigione in un affresco esemplare per lucidità e violenza della vita d'artista nel Rinascimento che lui stesso scrive.

Il pugnale aveva guizzato molto presto nelle sue mani, a Firenze, quando era poco più che adolescente e dei coetanei orafi, invidiosi, lo avevano aggredito. Scappato a Roma, inizia la sua spavalda carriera con la scalata alla corte di papa Clemente VII. Un Medici. Papa ambiguo, politicante indeciso, ambizioso e vizioso ma amante dell'arte e delle cose belle e che s'invaghisce del talento di Benvenuto e lo protegge. Cellini diventa orafo personale del Pontefice e maestro della Zecca. A fianco del Papa partecipa, con gesti temerari e folli, alla difesa di Castel Sant'Angelo durante il sacco di Roma a opera dei lanzichenecchi dell’armata imperiale. Tocca a Benvenuto fondere i tesori di San Pietro per ricavare i lingotti d'oro che servono a pagare il riscatto del Papa e liberare la città bruciata e martoriata. Benvenuto salva però i gioielli che, per nasconderli, cuce all’interno del pesante piviale di Sua Santità.

Cellini passa indenne attraverso la peste, attraverso i duelli e i delitti verso i quali è trascinato dall'orgoglio, dal delirio di vendetta o dalla gelosia per un collega. Non si salva dall'accusa (falsa) di avere rubato dal tesoro di San Pietro e finisce in prigione anche perché il suo protettore, il papa fiorentino che lo stimava e amava è morto e il nuovo Papa, un Farnese, romano, gli toglie privilegi e protezione. Nomina, al posto suo, un mediocre orafo milanese di nome Pompeo che si diverte a insultarlo. Cellini non può tollerarlo e gli pianta un pugnale nel petto: “Messi mano a un picol pungente pugnaletto, e sforzato la fila de’ sua bravi, li messi le mani al petto con tanta prestezza e sicurtà d’animo, che nessuno delli detti rimediar non possettono. Tiratogli per dare al viso, lo spavento che lui ebbe li fece volger la faccia, dove io lo punsi appunto sotto l’orecchio; e quivi riaffermai due colpi soli, che al sicondo mi cadde morto di mano, qual non fu mai mia intenzione; ma, sì come si dice, li colpi non si danno a patti…”

Imprigionato in castel Sant’Angelo, incontra uno dei personaggi più fascinosi nella sua galleria di memorie: il Governatore della prigione, un filosofo pazzo, nel senso psichiatrico del termine, che chiede a Benvenuto di aiutarlo a volare. 
Fallito il leonardesco tentativo di volo del Governatore, Benvenuto tenta di fuggire gettandosi dagli spalti del Castello con una corda fatta di lenzuola attorcigliate. La corda non è lunga abbastanza, Benvenuto è costretto a saltare, per gli ultimi metri verso la libertà. Si fracassa una gamba. È l’alba, si trascina sui gomiti per le viuzze romane, seguito da una torma di cani randagi che leccano il suo sangue. Viene riacciuffato e finisce a marcire nella “buca delle tarantole” del Castello. Ha attacchi di delirio, allucinazioni mistiche, parla con Cristo. Deve morire ma il destino che si diverte a giocare con lui lo salva ancora: il Papa, “vomitando”, lo vende al re di Francia Francesco I° che si circonda del meglio degli italiani: il Primaticcio, Leonardo, Rosso Fiorentino, Sebastiano Serlio, Niccolò dell’Abbate “nonché letterati e scienziati”. Eh sì, cervelli e talenti in fuga dall’Italia.

Di nuovo onori e ricchezze e insoddisfazione di Benvenuto. Lui propone, disegna e progetta per l’illuminato sovrano francese statue, fontane, archi di trionfo, opere grandi. Francesco I° gli risponde più o meno così: “Voi artisti avete il meraviglioso talento della vostra arte-- ma non sareste nulla se non ci fossimo noi che paghiamo il vostro lavoro. Fammi una-- saliera-- dove io possa mettere in tavola il sale e il pepe.” Ecco. Quale artista, nell’intera storia dell’arte fino a oggi, ha potuto evitare di fare qualche saliera mentre aspirava a ben altro? Benvenuto ubbidisce e fa una piccolissima sublime statua in oro, ebano e smalto, un capolavoro assoluto (oggi al Kunsthistorisches Museum, a Vienna). Ecco un elemento della biografia celliniana così immediatamente riportabile ai giorni nostri: l'opera d'arte è merce, legata al valore del mercato, al successo dell'artista e al capriccio di chi paga. Il talento è altra cosa. 
Sempre più in rivolta contro la propria immagine di orafo, di fabbricante di “cose”, Benvenuto vuole lasciare un segno di sé per l'eternità. Dopo avere speso quasi tutti i guadagni accumulati lavorando a corte, abbandona la Francia e torna in Firenze, povero come quando era partito, da adolescente.

Quest'uomo che racconta i suoi delitti, che racconta come “coglionava” il prossimo, che aveva quell'aria di spregio (ma anche, immaginiamo, un certo speciale sorriso, una speciale luce negli occhi che seduceva papi e re, nobildonne e prostitute e ragazzi), quando è vecchio non ha pudore di scrivere “E io sbattuto son, senza un quattrino, io spennacchiato, umile e rotto.”
Come non amarlo quando proprio nel momento dell'umiliazione riesce a realizzare (e con che titanico slancio) l'opera che lascerà il suo segno eterno. E la realizzerà secondo il gusto suo, l'idea sua e non secondo i desiderata di chi dovrebbe pagare. In realtà, nessuno ora vuole pagare per una sua opera.
Il suo momento della verità è questo: la fusione in bronzo, a cera perduta, di una grande statua del Perseo che taglia la testa alla Medusa. È l'ultima avventura di Benvenuto nella quale lui si descrive meticolosamente, in una sfida alle regole dell'arte, della tecnica, della ragione. Vecchio titano scricchiolante in lotta con le fiamme e con il destino. Il sessantenne “umile e rotto” si aggira per il Palazzo della Signoria trascinando un pacco. In quel pacco c'è il modello per una grande statua da fondere in bronzo, “un capolavoro alla maniera degli antichi, come nessun uomo oggi è più capace...” Sì, la fusione a cera persa, una tecnica dimenticata, perduta. Benvenuto sa che Cosimo de’ Medici non vuole il suo progetto; o meglio, non ci crede e infatti non lo paga. Cellini osserva il grande successo pubblico di Baccio Bandinelli, un mediocrissimo scultore onorato da tutti mentre di lui ormai tutti ridono. Quel Bandinelli che per umiliarlo pubblicamente, quando Cellini insiste con il progetto del Perseo davanti a Cosimo, lo accusa d’essere un “soddomitaccio”. A questa accusa/insulto, Benvenuto risponde con un sorriso: “Iddio volesse che io sapessi fare una così nobile arte, perché e’ si legge ch’e’ l’usò Giove con Ganimede in paradiso, e qui in terra e’ la usano i maggiori imperatori e i più gran re del mondo. Io sono un basso e umile omiciattolo, il quale né potrei né saprei impacciarmi di una così mirabil cosa.” Grande risposta all’ingiuria di essere gay!
Rabbia, malinconia, ma ancora una grande voglia di lottare contro la “porca ignoranza” di chi comanda e decide delle cose dell'arte animano un vecchio che si dibatte contro scherno e diffidenza. Un tempo ribelle violento, ora accetta di “piatire, convincere, scodinzolare” perché per fare l'opera della sua vita ha bisogno di molti soldi, ha bisogno d'essere creduto e finanziato. Deve affrontare “le stelle perverse” come lui chiama gli ostacoli, per realizzare il suo sogno. 

Proprio “quel vecchio umile e rotto” impegnando tutto quello che ha, aiutato da una donna, aiutato dalle donne del quartiere dove ha casa e studio, che nell’epico e tragico momento della fusione, quando il magma sta per coagulare e l’opera fallire, gli portano piatti e bicchieri, tutti gli stagni che posseggono e che gettano nella fornace. La statua in bronzo che esce dalla terra, magnifica e perfetta, contiene nella sua “carne” quest’amore di popolo e di donne.
La descrizione della fusione del Perseo è il racconto più spettacolare sulla gestazione/realizzazione tecnica/parto di un’opra d’arte che io abbia mai letto. E la fine è sublime: “… dipoi mi volsi a un piatto d’i insalata che era quivi su un banchettaccio, e con grande appetito mangiai e bevvi…”

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