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BIO

Giacomo Battiato

Ogni essere pensante, quando percorre l’ultimo tratto del cammino della vita, non può fare a meno di srotolare con spavento la matassa dei ricordi e fare i conti con il proprio fallimento. Camminare verso l’inverno soddisfatti di se stessi e di quello che si è combinato nelle stagioni passate è privilegio dei mistici del buddismo zen ma, tra noi comuni mortali, è soprattutto privilegio dei cretini.

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È proprio per sentirmi un poco cretino che ho deciso di districare, in pubblico (sono la persona meno “pubblica” possibile), alcuni fili della voluminosa e intricata matassa che mi sto buttando alle spalle. Non avrei potuto farlo se la mia terza moglie, Anna, non avesse amorosamente cercato di raccogliere anche un po’ dei materiali che io non avevo conservato o avevo proprio gettato via. Perché di quello che faccio e ho fatto, a parte mia figlia e mio figlio, non mi piace mai nulla. Ma loro, mia figlia e mio figlio, non sono solo, ovviamente, opera mia.

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1. L'inizio

Sono nato sotto le bombe in un ospedale di fortuna di un villaggio accanto a Verona. Ci si arrivava attraversando l’Adige su una chiatta, i ponti erano stati distrutti. Questo paese (Zevio, oggi un comune di 15.000 abitanti, il doppio di allora) è noto per avere dato il nome a un notevolissimo pittore di padre francese che lì visse tra il tre e il quattrocento e che fu chiamato, appunto, Stefano da Zevio. Alla Pinacoteca di Brera c’è una sua meravigliosa Adorazione dei Magi
Mia madre era lombarda, mio padre siciliano. Chi vuole sapere qualcosa di più su questo mio inizio può leggere, nel Diario Pubblico, Icaro Impiccato.

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Ho cominciato ad avvolgere la mia matassa dopo una adolescenza sufficientemente dolorosa da concedermi il lasciapassare verso ambizioni artistiche. A 21 anni frequentavo la facoltà di Lettere Moderne all’Università Statale di Milano, scrivevo poesie, e lavoravo presso l’Editore Mazzotta. Eravamo in tre e facevamo tutto, dall’ideazione dei libri, alla composizione fino alla loro distribuzione (caricavamo le centinaia di volumi in macchina e li portavamo ai vari distributori). Ricordo i libri sul Surrealismo, sulla Pop Art e la cura di una Antologia della poesia del Decadentismo. 
Un giorno metto le mie poesie in una grossa busta e, ottenuto l’indirizzo di Fernanda Pivano, la traduttrice dei grandi scrittori americani, l’autrice che aveva portato in Italia i poeti della Beat Generation, e gliele mando senza alcuna illusione che una risposta arrivasse. Mi sbagliavo. La telefonata arrivò: “Pronto? Sono Fernanda…” 
Le mie poesie le erano piaciute e aveva deciso di pubblicarne alcune nella sua rivista che si chiamava Pianeta Fresco. Mi invita a casa sua, divento amico di suo marito, l’architetto e designer Ettore Sottsass che molti conoscono. Ettore è più grande di me di oltre un quarto di secolo ma si appassiona come un ragazzo della mia età quando parliamo di immagine, di cinema, di fotografia. Cinema e fotografia erano la mia seconda passione, dopo la letteratura. Per un milanese, la professione del cinema era cosa lontana, romana. Ma attivissimi erano i cineclub che frequentavo appena potevo. Non solo, mi ero concesso un hobby con il beneplacito della mia giovanissima moglie. Avevamo ricevuto dei regali di nozze, roba di argenteria che cordialmente disprezzavamo. Avevo trovato un orafo disposto a comprarla in toto, a peso. Caricai le argentee cianfrusaglie in una borsa e gliele portai. Lui aveva solo delle piccole bilance d’oreficeria. Andammo allora nella macelleria accanto, dotata di una grossa Berkel. Ricordo ancora le espressioni delle massaie milanesi nel veder rovesciare rumorosamente sulla bilancia quell’assurdo insieme di brocche e brocchette d’argento. Con il ricavato mi comperai una Beaulieu 16mm e cominciai a imparare a filmare, raccontando per immagini la periferia milanese che, in quegli anni, cresceva in tristissimi vortici di cemento. 

2. Dalla poesia alla pubblicità

Ettore Sottsass era il designer ufficiale della (allora) grande Olivetti.  Aveva concepito la prima macchina per scrivere portatile in plastica e non in acciaio. Era rossa con due occhi gialli, Ettore l’aveva chiamata Valentina, come l’eroina dei fumetti di Crepax. È oggi visibile, tra altri musei, al MoMa di New York e alla Galleria d’Arte Moderna di Roma ed è considerata “oggetto di design assoluto”. Nella sua follia, Sottsass aveva deciso che un ragazzo, tal Giacomo Battiato, avrebbe dovuto curare l’immagine per il pubblico di questo suo nuovo avanguardistico progetto. Ancora più folli i responsabili della Olivetti che non batterono ciglio e, in piena fiducia di Sottsass, non chiesero il mio curriculum. Spiegai a Ettore che un oggetto simile doveva essere lanciato nelle strade di Londra calpestate, in quegli anni, dai Beatles e dai Rolling Stones. Così accadde. Non mi dilungo sulla realizzazione di quei filmati, di come mi studiavo fino nei minimi dettagli la maniera di filmare, nel terrore di essere scoperto un principiante ignorante di tecnica come in effetti ero. Siccome dimostravo meno dei miei poco più che vent’anni, mi ero fatto crescere la barba per essere preso sul serio dalla navigata troupe inglese. Fu così che, da puro pivello autodidatta, mi ritrovai a dirigere Alex Thompson che era stato l’operatore di Lawrence d’Arabia e sarà il direttore della fotografia di Jesus Christ Superstar e di Excalibur. Ci provai molto gusto, come se inquadrare, raccontare per immagini e luci, lo avessi sempre fatto fin da bambino e fosse la cosa più bella del mondo. Andò più che bene sia per Valentina, che divenne un’icona, che per me. Da un giorno all’altro mi ritrovai nelle vesti di un richiestissimo regista pubblicitario. Mi si era aperta una inaspettata e nuova carriera. Lavoravo come un matto e imparavo. Vinsi diversi premi, non ricordo quali ma ricordo che, per molti anni e anche quando cominciai a fare cinema serio, non andai mai a ritirarli, lo consideravo un rito meschino che vellicava il narcisismo e il narcisismo degli artisti è patetico. Anche quando parlano di sé e fanno l’esegesi del proprio lavoro, gli autori (che siano pittori, scrittori, registi o altro) sono il più delle volte patetici. Se in questa breve autobiografia sto cadendo anch’io nello stucchevole vizio, chiedo venia, sono vecchio. Alcune cose sono certe.  Mi è sempre e tanto piaciuto lavorare, e oggi ancora, come quando ho iniziato. Ho sempre rifuggito stare in pubblico, e questo probabilmente mi ha nuociuto ma me ne sono fatto una ragione. Infine, sono sempre stato più attento alle partite perse che a quelle vinte, alle critiche piuttosto che agli elogi. 
Alla fine dei ribelli anni ’60, dedicarsi alla pubblicità era considerata cosa quasi infamante per un giovane impegnato politicamente (difficile da credere, oggi); era vendersi al nemico, al padrone. Superando i sensi di colpa e vergognandomi un po’, vinsi il Leone d’Oro al festival della pubblicità a Cannes e i due Oscar americani della pubblicità: lo One Show Gold Award, assegnato dall’Art Directors Club a New York, e l’Andy Award of Excellence, assegnato dall’Advertising Club, sempre a New York. Non andai a nessuna delle tre cerimonie e non ritirai quei premi.

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L’architetto e designer argentino Emilio Ambasz, quando divenne curatore del dipartimento di architettura del Museum of Modern Art di New York, volle che fossi io a creare un affresco del design italiano da proiettare non-stop ai visitatori che entravano nel Museo. Fu un’epica messa in scena di un lunghissimo piano-sequenza su una gru che partiva da Piazza del Duomo, attraversava la Galleria piena di installazioni (una torre per ogni opera), per finire dentro al Teatro alla Scala con le opere sul palcoscenico. Raccontava, nel percorso, le massime icone del nostro design. Bloccammo per due notti il centro di Milano, cuore, in quel momento, del lavoro degli ammiratissimi designers italiani.

Ho passato diversi anni nella frenetica attività di regista pubblicitario e di documentari industriali, andando in giro per il mondo, guadagnando molto bene, lavorando con i più grandi direttori della fotografia del momento e affinando il mio autodidattismo. Potrei riempire un volume di racconti comici e/o allucinanti sulle esperienze di quegli anni. Sui documentari nelle foreste dell’Africa centrale, tra serpenti, scorpioni e altre amenità con un direttore della fotografia un poco più grande di me ma ancora pivello pure lui, Vittorio, sì quello che sarebbe divenuto Vittorio Storaro. 
Accadde però che a un certo punto mi fermai davanti al fatidico specchio e feci la fatidica domanda: “Ma è proprio questo che volevi fare?” No, naturalmente. Volevo raccontare delle storie.  E, da un giorno all’altro, mi ritirai. Mi ero ormai allontanato dal mondo editoriale dove avevo cominciato ma avevo in mano gli strumenti dell’artigianato del cinema. Ricominciai, per così dire, daccapo. Abbandonate le grandi troupe, i grandissimi direttori della fotografia, il 35mm cinemascope, mi misi a filmare documentari e programmi culturali con piccole troupes, piccole macchine da presa, giovani tecnici e poche lire. 

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3. Alcuni altri passi, dopo la svolta: Boulez. Giulini, l’Espressionismo

Appassionato di musica passai un anno intero seguendo e filmando lavoro e pensieri di due grandi musicisti, Carlo Maria Giulini e Pierre Boulez. Boulez era all’apice della sua vita artistica e professionale, direttore stabile della New York Philarmonia, della BBC Orchestra, direttore ospite delle più grandi orchestre del mondo, era anche uno dei più importanti compositori del momento. Per molti mesi, ho avuto la sensazione di frequentare il “genio”. Filmando i concerti, mettevo sempre una cinepresa puntata soltanto sulle sue mani. Montavo io stesso il materiale. Bene, e lo dico senza retorica, la musica sembrava uscire dalle sue dita, anche le note dell’ultimo dei piccoli strumenti! Nessun gesto di quelle mani era enfatico o generico o meccanico. Un effetto irreale, magnifico. Le note, e gli strumenti chiamati a suonarle erano parte integrante del sistema nervoso del musicista. Non ho mai visto niente di simile con altri direttori, né a occhio nudo, né attraverso le lenti degli obbiettivi. Filmai una lezione di direzione d’orchestra alla Juilliard School di New York. Un giovane studente dirigeva (anche lui a mani nude, senza bacchetta, come il suo maestro) il Preludio del Parsifal di Wagner. Misi una macchina da presa puntata sulle quattro mani. Prova tangibile di come la musica uscisse dalle mani di Boulez mentre i gesti dello studente erano imprecisi e confusi. Al punto che, esasperata, la mano di Boulez smette di dirigere e comincia a schiaffeggiare le mani dello studente mentre l’orchestra si spegne in una grossa cacofonia. Immagini simboliche, per me indimenticabili.
Pierre Boulez è stato per me il massimo esempio di disciplina ossessiva e di dedizione al proprio lavoro. 
Carlo Maria Giulini era diverso, era un romantico, grande direttore della musica romantica, romantici erano anche i suoi gesti, nella scia di Furtwaengler. Ricordo che, al primo incontro, quando la moglie di Giulini mi vide (sembravo e forse ero poco più che un ragazzino) fece un balzo indietro e non riuscì a trattenersi: “ma come? Carlo Maria ha lavorato tanto con Visconti alla Scala e chiamano lei per fargli un ritratto cinematografico?” Risposi che non era colpa mia se avevano scelto me e che forse Visconti aveva altro da fare. Passai con Giulini tantissimo tempo (la moglie lo seguiva sempre e dovunque), con le più grandi orchestre in Europa e negli Stati Uniti, nelle interviste che gli feci, in lunghe passeggiate sulle rive del lago Michigan o tra i boschi delle sue amate dolomiti. Ebbi un’idea, per spiegare al pubblico il ruolo del direttore d’orchestra. In un antico Pub di Londra, feci incontrare Giulini con David Hemmings, il protagonista di Blow Up di Antonioni. David (che fu poi regista e molti forse lo ricordano come attore in uno dei suoi ultimi ruoli, quello di Cassio nel Gladiatore). David Hammings aveva avuto un’educazione musicale ed era stato un giovane interprete delle opere di Benjamin Britten. Che cosa chiesi a Hemmings, in quel confronto con Giulini, nel pub pieno di fumo e di pinte di birra? Che recitasse più volte il medesimo brano del monologo del Riccardo III° di Shakespeare. Ma, ogni volta, con un approccio completamente diverso: aggressivo, lamentoso, doloroso, furioso, malinconico eccetera. Ogni volta era emozionante, ma in maniera del tutto differente. La medesima cosa fa, un direttore d’orchestra, davanti a uno spartito, ed è questa l’interpretazione; le note, sulla carta, sono le stesse -come le parole del testo shakespeariano- ma nella loro trasformazione in suono posso comunicare emozioni davvero dissimili. Una non necessariamente migliore o “più giusta” dell’altra.
Il co-produttore tedesco dei ritratti dei musicisti, soddisfatto del mio lavoro, mi propose di raccontare, in un’ora, l’Espressionismo. L’avrei accettato anche se non mi avesse pagato. Decisi di evitare qualsiasi forma di speaker didattico e vinsi la scommessa. La forza rivoluzionaria delle pitture dei due filoni della pittura espressionista, Der Blaue Reiter nel sud della Germania e Die Brucke, al nord, parlava da sola e la commentavo con la musica espressionista. Avevo messo in scena, filmandoli a Monaco di Baviera, dei frammenti del teatro espressionista e un brano dell’Erwartung di Schoenberg, così come avevo recuperato e inserito schegge del cinema espressionista. Questo strano e visivamente ricchissimo (non per merito mio ovviamente, ma dei pittori, le cui opere fotografai e filmai in tutti i musei tedeschi, e dei musicisti e dei registi di quel tempo magico e difficile della storia tedesca) ebbe, mi disse il produttore, il Gran Prix del Mifed. Non sapevo che premio fosse né andai a ritirarlo, è chiaro. Lo studio a fondo dell’espressionismo è stato per me forse il più significativo degli apprendistati.

4. Incontro Dante Spinotti e diventiamo complici

Dopo queste esperienze si colloca il mio incontro con un direttore della fotografia friulano, mio coetaneo, impiegato alla Rai di Milano. Arrivava dall’hinterland in treno la mattina, timbrava il cartellino e, nella “stanza degli operatori”, aspettava una chiamata; poteva essere per uno sceneggiato così come per filmare il taglio di un nastro. Si formò con lui un sodalizio e, una volta trasferitomi a Roma, feci di tutto per farmi seguire. Cosa che, a un certo punto, avvenne.  Parlo del due volte nominato agli Oscar (L.A. Confidential e Insider) Dante Spinotti. La sede RAI di Milano era stata incaricata di produrre una serie di brevi letture di grandi romanzi della letteratura mondiale con Franco Parenti, da mandare in onda in prime time, subito dopo il telegiornale della sera. Si doveva chiamare, il programma, Otto Pagine. Risposi che la televisione non era la radio e che immaginare un attore, pur bravissimo, dietro a un leggio, non era cosa che avrei fatto; contro-proposi una messa in scena e non una pura lettura e proposi brani di romanzi con dialoghi dove Franco Parenti, truccato e abbigliato nei panni dei differenti personaggi, li avrebbe recitati tutti; nel montaggio, dunque, Franco interloquiva con se stesso. Accettarono la proposta, Parenti ne fu entusiasta e, a quanto mi dissero, il risultato portò alla lettura di quei romanzi un gran numero di spettatori. Fu qui, che iniziò il sodalizio con Dante Spinotti. Stessi gusti per l’estetica della fotografia, stessa passione per il cinema.

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5. A Roma

Il mio trasferimento a Roma avviene ai primi anni settanta. Qui la matassa professionale e personale s’ingrossa e s’ingarbuglia. Era accaduto che un giorno, a Milano, aveva squillato il telefono di casa (giuro che questo episodio è assolutamente vero): all’altro capo si presenta un dirigente della Rai di Roma che mi dice di avere visto i miei lavori e di volermi incontrare perché gli avrebbe fatto piacere lavorare con me. Fissammo l’appuntamento. Presi il treno che allora impiegava un infinito numero di ore e venni all’appuntamento a viale Mazzini. Il funzionario si chiamava Sergio Silva (fu lui, più tardi, il padre della Piovra). Nacque Il Marsigliese, scritto con Luciano Codignola (il drammaturgo traduttore di Strindberg). Era ispirato alla vera storia della guerra che si svolgeva in quegli anni, a suon di morti, per il predominio del contrabbando tra le malavite siciliana, napoletana e marsigliese. I due giovani protagonisti erano il francese Marc Porel e Vittorio Mezzogiorno in una delle sue prime importanti prove d’attore. Proposi ovviamente a Dante di seguirmi a Roma in questa avventura, ma lui mi disse che non si sentiva ancora pronto al cambio totale di vita. Mi piacerebbe raccontare la cronaca delle riprese di quel film. Non grandi mezzi, tempi limitatissimi e frenetici. Ricordo che, essendomi trasferito a Roma con moglie e figlia e tagliati i ponti con Milano, avevo l’incubo di un insuccesso totale, non dormivo più, dipingendomi una catastrofe nella professione e nella vita. 
Nel realizzare Il Marsigliese, credo che usai una tecnica di narrazione, diciamo aggressiva per quei tempi, allora sconosciuta alla televisione italiana. Il film, tre ore, fu diviso in tre parti, proiettato in tre successive domeniche. Accadde che mezza Italia, in quelle domeniche, si fermò. Non rimasi, come temevo, senza lavoro. Il film vinse un premio per la Migliore Regia e un altro per il Miglior Thriller. Non andai a ritirarli (come non avevo mai ritirato quelli presi per la pubblicità). Perché? Spocchia forse? Rifiuto delle convenzioni dell’ex-sessantottino? O era il sotterraneo pensiero che, forse, avrei potuto fare meglio e non meritavo premi? Il vero premio fu per me quando mi comunicarono che il vecchio Luchino Visconti aveva guardato tutti e tre gli episodi del film e voleva che mi arrivasse il suo apprezzamento.

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Dopo Il Marsigliese mi fu offerto di scrivere e dirigere una storia mia. Ne uscì Un Delitto Perbene. Altro film in tre parti, 3 ore. Come nel precedente, giravamo con pellicola a colori (Kodak, 50 ASA) ma il film veniva ancora trasmesso in bianco e nero. Questo film raccontava la vicenda di un giovane e brillante medico milanese, sposato con figli, che una mattina si risvegliava, amnesico, accanto all’amante morta con uno squarcio nella gola. Non aveva motivo per ucciderla. O invece sì? La sua doppia vita gli era, in effetti, divenuta insostenibile. Oppure, soffrendo la ragazza di angioedema, l’edema di Quincke, aveva avuto un improvviso attacco nella notte a letto con lui e lui aveva tentato invano di salvarla, praticandole una indispensabile incisione nella trachea e la morte di lei per mano sua lo aveva sconvolto facendogli perdere sensi e memoria? Un thriller psicologico. Gli interpreti erano Claudio Cassinelli, Anna Maria Gherardi, Cecilia Sacchi e Renato Scarpa. Il film fu prodotto dal centro RAI di Milano e ritrovai Dante Spinotti. Studiavamo, sperimentavamo, ci divertivamo, dormivamo poco. Dante racconta questa esperienza, nella sua autobiografia “Il Sogno del Cinema”, pubblicato da La Nave di Teseo nel 2023.

6. Luci e ombre. La mia stravagante biografia professionale si consolida

A proposito di “luce”, mi rendo conto che, parlando dei miei film, tendo a citare con particolare attenzione i direttori della fotografia che mi hanno accompagnato. Se “cinematografia” significa, etimologicamente, “scrittura in movimento” e “fotografia”, come non ha mai smesso di ripetere Vittorio Storaro, “scrittura con la luce” è per me essenziale la fratellanza simbiotica con chi mi fornisce gli strumenti perché io possa “scrivere in movimento con la luce”. Questo non toglie nulla al fatto che questa scrittura prende davvero vita e ha senso soltanto quando alla base ci sono a) la qualità della scrittura della sceneggiatura e b) il lavoro magico degli e con gli attori.

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Mi fu proposto Martin Eden, dal romanzo di Jack London, una coproduzione internazionale, sceneggiata dal biografo di London, un raffinato scrittore inglese di nome Andrew Sinclair. Viveva in quel tempo, con la sua inglesissima famiglia, a Malibu. Andai a stare con lui per qualche settimana, per la revisione finale del testo. Ci fu un terremoto. Restammo isolati per parecchi giorni. La casa, sulla riva del mare, fu attraversata da una grande crepa. La crepa nel pavimento, giorno dopo giorno, si allargava, ci guardavamo dentro, vedevamo la sabbia. Avevamo spostato tutti mobili dalla parte della montagna e continuavamo a scrivere. Andrew, da bravo inglese, non si scomponeva anche perché la casa non era sua, era in affitto. 
Martin Eden è un romanzo molto autobiografico e contiene due idee cardine della vecchia visione americana della vita. La prima, la dirò in latino: “Nihil difficile volenti”, e la seconda: “Quello che conta non è raggiungere la meta ma la lotta per arrivarci”. Dunque il marinaio protagonista del romanzo, rozzo, povero e semianalfabeta, capitato per caso ma contemporaneamente di fronte a una poesia e a una bella donna raffinata, ne è abbagliato e decide che, un giorno, lui sarà uno scrittore e, solo allora, quella donna potrà amarlo. Una ingrata battaglia la sua: si mette a studiare e provare, affronta sacrifici, fa la fame ma ottiene soltanto rifiuti, disprezzo e insulti. Soltanto dopo una lunga lotta, dopo aver visto l’inferno, riesce a realizzare il suo sogno e diventa uno scrittore acclamato. A quel punto è ricco, celebrato, ricercato, amato anche dalla donna che un tempo lo aveva rifiutato. Ma a questo punto, Martin è svuotato, disgustato da tutti e da tutto e si uccide nuotando verso il fondo del mare. Il film durava cinque ore, cinque episodi. Fu, mi dissero, un grande successo in tantissimi paesi e una delle prime Serie europee vendute a un cavo americano, la CBS, se non ricordo male. Quello che ricordo è che alla proiezione a New York con i distributori, mi chiedevano piuttosto stupefatti come avessi mai fatto a filmare la baia di San Francisco senza le moderne costruzioni. Eh sì, allora non esistevano le Computer Generated Images, non si poteva cancellare nulla. Spiegai che, dopo avere studiato la corografia della Baia, avevo trovato un punto preciso sul lago di Como che corrispondeva e lì (la fortuna aiuta i folli). Sullo stesso lago, c’era chi aveva conservato dei battelli a pale del primo novecento e noi li avevamo usati. Riferisco con grande piacere che due bravi scrittori, uno romano l’altro emiliano, mi hanno confessato che fu proprio quel mio lungo film a provocare in loro, al tempo ragazzi, il desiderio e la decisione di diventare scrittori. Dante Spinotti era ancora a Milano e non era potuto venire. Diresse la fotografia Pasqualino De Santis (avevo già girato con lui della pubblicità). Pasqualino aveva già vinto l’Oscar per Romeo e Giulietta di Zeffirelli, era il direttore della fotografia di quasi tutti i film di Francesco Rosi ed era stato il DOP di Morte a Venezia di Luchino Visconti. Aveva un carattere difficile ed era tiranno con i suoi assistenti. Lo rimproveravo, per questo. Aveva, in realtà, un grandissimo cuore, era timido e la passione ossessiva per il suo lavoro lo torturava e gli faceva torturare i suoi collaboratori. Girando Morte a Venezia, i suoi assistenti dovevano sviluppavare di notte, nel bagno dell’albergo, degli spezzoni di ognuno dei ciak che erano stati scelti tra il materiale girato durante la giornata. Pasqualino voleva controllare immediatamente la qualità della luce di ogni inquadratura. La mattina seguente gli mostravano gli spezzoni di negativo sviluppato e lui li mostrava a Visconti. Una vita senza riposo, su quel set, per l’équipe della fotografia. 
Pasqualino mi ha confidato un episodio della sua gavetta davvero simbolico e che piacerebbe tanto, ne sono sicuro, a Spielberg.  Da giovanissimo, aveva cominciato come ragazzo di bottega, chiamato alla bisogna da una ditta che affittava materiale per il cinema. Un giorno lo chiamano e lo mandano a portare a Cinecittà, dove si girava un colossal, una ennesima macchina da presa; si trattava della mitica americana Mitchell. Io la usai una volta, in Inghilterra: era meravigliosa, per la sua storia, il suo peso e per la sua non praticità. Il modello messo in mano a Pasqualino era mastodontico e si poteva usare soltanto con la altrettanto pesante testata a manovelle. Tutte le mattine, il ragazzo De Santis arrivava con il suo carico a Cinecittà, montava il bestione, pronto a portarlo sul set dove molte altre macchine da presa giravano. Dopo pochi giorni, Pasqualino arriva a Cinecittà, prepara il tutto, ma nessuno lo chiama sul set, il bestione non serve. La cosa si ripete il giorno seguente e quello dopo ancora. Pasqualino teme che gli dicano che il bestione ha finito, di non presentarsi più, il che significa, per lui, non essere più pagato e rimandato a casa. Lui mi confessa che aveva continuato ad arrivare la mattina presto con il suo carico, si nascondeva in un bagno perché gli organizzatori non si accorgessero di lui e dimenticassero di annullare l’affitto della macchina. Se ne stava dunque seduto sulla tavola del cesso, per ore, con la pesante Mitchell in braccio e la testata e la cassa degli obbiettivi ai piedi. 
Pasqualino morì, abbracciato alla macchina da presa, sulla neve, in Ucraina, sul set di La Tregua. Prima di partire ci eravamo parlati a telefono: Giacomo, quando lavoreremo ancora insieme?
Pasqualino mi aveva riempito di affetto e di stima, mi rimproverava perché ero troppo buono e, in questo mestiere, non si può essere buoni. Mi chiamava, tutta bontà sua questa, il suo giovane David Lean italiano. Un giorno, impostando una sequenza in Martin Eden, mi aveva detto: “Sei il primo regista che mi chiede di mettere i volti degli attori al sole e -cosa più grave- io ti ubbidisco!” Gli avevo spiegato del famoso sole della California che aveva bruciato e coperto di rughe i volti dei vecchi grandi del cinema americano. Il protagonista era Christopher Connelly (Paper Moon); con lui c’erano il mio allora inseparabile Vittorio Mezzogiorno, Capucine, Flavio Bucci, Andréa Ferréol e Delia Boccardo, un’attrice bella e di talento che avrebbe meritato una più importante carriera. 
Tra i mille ricordi che mi legano a questa esperienza, non posso non raccontare questo: un giorno, Christopher Connelly fu accompagnato in auto sul set da un giovane assistente divenuto poi un bravissimo production manager tuttora mio carissimo amico. Stavano percorrendo la via dei fori imperiali. Improvvisamente, Christopher chiede al suo accompagnatore di fermare l’auto. Scende, raggiunge il bordo della strada che si affaccia sul foro romano, si accascia per terra e comincia a singhiozzare. Il mio giovane assistente si preoccupa, lo raggiunge, gli chiede se sta male. Christopher (originario di Wichita, nel Kansas), gli indica le rovine romane nell’immensità dei Fori e gli dice, tra le lacrime: “This is too much for me!

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Feci un altro film per la televisione, a Trieste, con la fotografia di Pasqualino De Santis, Il giorno dei Cristalli. Protagonisti erano Vittorio Mezzogiorno e Francisco Rabal. Spinotti, che non aveva potuto partecipare all’impresa, mi chiamò dopo averlo visto: era in uno stato di autentico entusiasmo. Non ricordo cosa avesse innescato quell’entusiasmo che io non condividevo (glielo chiederò, se si ricorda ancora). Forse era per l’approccio formale. Io, in realtà, vivevo allora un brutto periodo esistenziale e non giudicavo, quel mio film, riuscito. Per niente.

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Riuscita fu invece l’esperienza con Spinotti che seguì: Colomba, dal romanzo di Prosper Mérimée. Questo notevole scrittore poliglotta, traduttore dei grandi russi, pittore e archeologo, ha scritto due davvero suggestivi ritratti di donne: Carmen e, appunto, Colomba. Ambedue ispirati da storie vere. Colomba è un racconto di vendetta che Mérimée aveva udito girando la Corsica selvaggia, l’Isola della Bellezza, in qualità di Ispettore dei Monumenti Storici. Per permetterci di girare tra le rocce, di correre sulle pendici di montagne, di attraversare le gole a cavallo decisi che ci occorreva la steadicam. In Italia, non era ancora arrivata. La comprò a sue spese un bravo fotografo milanese, fece un rapido corso con Garret Brown, l’inventore, e venne sul set di Colomba. La usai e ne abusai. Dante fece una fotografia strepitosa e strepitoso era il cast: Anne Canovas (giovanissima di notevole talento), Alain Cuny, Umberto Orsini e la sensitiva e fremente Elisabetta Pozzi. Alain Cuny era un attore e un uomo “speciale”. Purtroppo, di lui uomo, ho perso durante uno sventurato trasloco le lettere che aveva continuato a scrivermi dopo il film. L’attore non ha bisogno di elogi, ma capitò un episodio che mi piace raccontare. Avevamo sul set i cavalli addestrati per il cinema. Puoi andare accanto ai loro occhi con una macchina da presa, puoi accostare loro un’assordante macchina per il vento, un proiettore, puoi gridare o sparare davanti a loro… questi cavalli non si scompongono. Bene, nella scena finale del film il personaggio interpretato da Alain, un vecchio impazzito per la morte dei suoi due figli che lui stesso aveva mandato a morire, si avvicina a Colomba che seduta sul suo cavallo si gode la vendetta compiuta. Alain sudato, coperto di mosche, si avvicina a Colomba bisbigliando la sua maledizione e fissandola con un odio da folle. L’intensità, la potenza dell’odio in quello sguardo sono così sconvolgenti da far prima arretrare e poi impennare il cavallo abituato a tutto e solitamente incurante di tutto. Non solo io, tutti erano stupefatti. 
Ruggero Mastroianni montò il film. Un giorno mi dice: “Scusa Giacomo, ma tu la devi smettere. Tutti i tuoi colleghi, famosi o sconosciuti che siano, vengono qui in moviola e si eccitano per quello che vedono e me lo additano: ‘guarda la meraviglia di questa inquadratura!’ ‘Ma questa sequenza è magnifica!’ ‘Guarda quanto sono bravo!’ Tu sei il primo che non fa che dire: ‘qui si poteva fare meglio, qui avrei dovuto fare così, qui non mi piace niente, qui non va bene.’ Basta, Giacomo!” Così ero e così ho continuato a essere. Guardavo di sfuggita le recensioni positive mentre rileggevo cento volte quelle negative e/o insultanti. Masochista? Forse semplice coscienza dei difetti e dei limiti e voglia di fare meglio.

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7. I Paladini (Hearts in Armour)

E arrivo a un film che per alcuni è diventato cult (ancora, dopo più di quarant’anni, me ne parlano e mi scrivono), altri lo hanno cordialmente detestato: I Paladini. Una produzione della Vides di Franco Cristaldi e Nicola Carraro, distribuita da Warner Bros. I conflitti attorno alla sceneggiatura ispirata alle famose gesta furono molti e spiacevoli, sia a Roma che a Burbank in California. Uno dei due sceneggiatori italiani incaricati dalla Vides di scrivere il film, in un suo libriccino di memorie mi ha coperto di insulti. Non merita risposta. Lascio a lui tutta la sua acredine, ignoranza e volgarità. Non sa, il tale, che quella sceneggiatura, che si basava su un pitch affascinante, una volta scritta era stata considerata dalla Warner impresentabile. E lo era. Molti, a Los Angeles, me compreso, nell’urgenza di un film già avviato ci avevano messo le mani senza, ahinoi, migliorare di molto il risultato. La storia di questa vicenda è complicata e noiosa e ancora mi appena; non voglio certo annoiare e appenare anche chi mi sta leggendo. Il risultato dei conflitti fu che, con troppa presunzione, decisi di fare un film puramente visivo, una versione hollywoodiana e fiammeggiante dei Pupi siciliani, girata tutta sull’Etna. 
“Che direttore della fotografia vuoi?” Mi chiese Cristaldi. 
“Dante Spinotti.” 
“E chi è?” 
“Quello giusto.” 
“Ma come? hai lavorato con diversi premi Oscar, non abbiamo problemi economici, fammi un grande nome.” 
“Dante Spinotti.” E aggiunsi: “siccome ti costa molto meno dei ‘grandi’, pagagli una permanenza a Los Angeles prima di cominciare, perché si/ci aggiorni su tutto quello che c’è di nuovo nella tecnica.” 
Così avvenne. Facemmo un film con una scrittura davvero povera e con un cast per lo più di ‘belli’ piuttosto che di ‘bravi’ (me ne vergogno), i famosi “pupi”. L’impatto visivo, dicono alcuni, era però travolgente. Ebbe tre nomination ai David di Donatello (regia, fotografie e costumi) e fu distribuito in moltissimi paesi. Dopo quel film (che, se ricordo bene, l’associazione dei Cinematographers inglesi definì “una delle 100 più belle fotografie nella storia del cinema europeo”), Dante partì per Los Angeles, questa volta in maniera più o meno definitiva. Nanà Cecchi, che aveva realizzato costumi e armature e aveva vinto il David, fu immediatamente chiamata da Richard Donner (che aveva visto il film a Hollywood) per disegnare i costumi di Ladyhawke
Tra gli estimatori di quel film ci fu Antonio Pasqualino, il celebre medico palermitano, professore di antropologia a Berkeley, fondatore dell’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari e autore del celebre “Le Vie del Cavaliere”. Non posso dimenticare l’entusiasmo appassionato che mi comunicò per il film e per il suo tributo al teatro dei pupi siciliani. Umberto Eco, nel suo saggio “Dieci modi di Sognare il Medioevo”, fa una cavalcata attraverso quattro secoli di fascinazione medievale incontrando, tra i tantissimi, Ariosto e Darth Vader. Quando arriva all’oggi (1985) cita il romanziere Malerba e I Paladini. “Pupi palermitani”, dice del film, con volti che richiamano i desideri del movimento di liberazione omosessuale e in una invenzione visiva ispirata ai dipinti di Eleanor Fini e Fabrizio Clerici. Perfetto. Dice anche: “Come tutti i sogni, anche quello del medioevo minaccia di essere illogico, e luogo di mirabili difformità”. Ed è vero che non si sogna il medioevo perché è il passato, ma piuttosto perché è quel luogo immaginario dove si fondono tutti gli elementi chiave della civiltà moderna europea. 
I Paladini sono soltanto un gioco visivo, ma il caso mi porterà, 36 anni dopo, in un altro sogno medievale con ben altro spirito e peso, proprio con Eco, nella realizzazione di otto ore dal Nome della Rosa.

8. Parentesi Operistica

In quegli anni feci la regia di due opere liriche, il Simone Boccanegra di Verdi allo Staatsoper di Stoccarda diretto da Dennis Russel Davies e il Così fan Tutte di Mozart al Mercadante di Napoli con una piccola orchestra composta tutta da grandi solisti diretti da Salvatore Accardo. La giovane Cecilia Bartoli (già così straordinariamente talentuosa e dedicata) cantava nel ruolo di Despina. 
Non ripetei più quelle esperienze per due ragioni. La prima è che il teatro d’Opera si programma con anni di anticipo e a me mette troppa angoscia ipotecare il futuro in questo modo (con i giorni precisi segnati sul calendario), era come stabilire a distanze per me siderali quando avrei avuto le mani legate e mi sarebbe stato impossibile girare un film, cosa che mi piaceva di più. Ma la vera ragione è che la regia d’opera (se non sei anche un grande scenografo, arredatore e coreografo) è divertente soltanto nel suo concepimento, nell’ideazione di come interpretare quell’Opera. Quando poi si arriva sul palcoscenico la cosa diventa per me, un po’ noiosa. I cantanti, giustamente, vogliono cantare. La recitazione viene dopo, anche quando (e non è sovente) hanno anche il talento di attori. Ho sempre pensato e continuo a pensarlo che l’unica via contemporanea alla regia d’Opera sia quella della stilizzazione, mantenendo una fedeltà “astratta” all’epoca in cui è stata scritta e composta. Se sono inguardabili le messe in scena “fedeli all’epoca” sono, a mio parere (con troppo rare eccezioni), assai più inguardabili e sovente grottesche le “attualizzazioni” (che vorrebbero mostrare l’originalità e l’audacia della/del regista) dove la musica e il testo stridono in maniera imbarazzante con quello che si vede sul palcoscenico.

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9. Il Cugino Americano (Blood Ties)

Nell’85/86 realizzai Il Cugino Americano (Blood Ties) scritto insieme a Corrado Augias. Credo fosse la prima volta in cui si parlava, in un film, dei giudici siciliani sotto protezione. Durante la scrittura passai una giornata a Palermo con Giovanni Falcone il cui nome, allora, era noto quasi soltanto agli addetti ai lavori. Prodotto dalla RAI in due episodi, fu acquistato da Viacom alla visione del primo materiale e da loro distribuito nel mondo, in una versione unica cinematografica. Negli Stati uniti uscì su Showtime e tenne, per mesi, il prime time. Il New York Times ha scritto: “Diretto con intensità ed eleganza da Giacomo Battiato, ‘Blood Ties’ riesce a tenere lo spettatore inchiodato alla sedia e lo costringe a guardare tra l’inorridito e l’affascinato. Se ‘Blood Ties’ funziona meglio di altri film simili, è perché Battiato, sfruttando al massimo le locations palermitane, cattura con forza l’angoscia della situazione. Funziona tutto, si segue perfettamente la storia che si snoda in diversi continenti. Una volta intrappolati nella rete della mafia, non c'è più via di scampo (…) Quando le produzioni televisive italiane riusciranno a distinguersi per la loro sontuosità e bellezza, così come ‘Blood Ties’, avranno più possibilità di penetrare il mercato americano.” 
Tre brevi cose voglio ricordare qui. La prima è citare il piacere di lavorare con uno straordinario attore. Brad Davies, in questo caso. Penso che quando finalmente una/un regista si trova sul set davanti a un’attrice o a un attore alla prova con il personaggio può avere tre reazioni. La prima, una delusione. Quando mi è capitato (rarissimamente ma, sì, è successo) è stata la disperazione e all’improvviso mi sono sentito anch’io, un cane. Non riuscivo più a pensare lucidamente alla costruzione della scena, inorridito per la mia incapacità di giudizio e/o insufficienza di tempo che avevo dedicato alle prove. Il secondo caso è quando ti trovi davanti a una prestazione di attrice o di attore giusta, come l’avevi immaginata. Benissimo, hai la conferma di avere fatto la scelta giusta, che il risultato finale corrisponderà alle aspettative. Poi c’è il terzo caso. L’attrice o l’attore iniziano a recitare la loro prima scena importante e tu, regista, rimani a bocca aperta. Ti rendi conto che stai ricevendo un regalo, un grosso regalo, perché quello che lei o lui ti stanno dando è più di quello che avevi pensato e immaginato. Bene, questo mi capitò più di una volta e fu causa di grande gioia e gratitudine. Con Brad Davies è successo. Rimanemmo amici e fino alla sua morte (per AIDS) ci scambiammo lettere. Ho perso anche quelle, purtroppo, durante l’infelice trasloco per un infelice divorzio. 
Il secondo racconto legato a questo film riguarda un altro attore in un ruolo minore (era il padre del personaggio interpretato da Brad Davies): Michal V. Gazzo. Oggi questo nome lo ricordano forse soltanto gli appassionati di storia del teatro e di cinema. Ma Michael Vincenzo Gazzo, nato in New Jersey nel 1923 da una famiglia di emigranti italiani (con ogni probabilità il cognome era stato volgarmente deformato/inventato a Ellis Island). Michael Gazzo aveva avuto una nomination agli Oscar per il suo ruolo di Frank Pentangeli ne Il Padrino (parte seconda) ma soprattutto era l’autore di un enorme successo a Broadway, un dramma sulla dipendenza da morfina dei reduci della guerra di Corea: Un Cappello Pieno di Pioggia. Gazzo era stato anche un importante insegnante all’Actor’s Studio. Un uomo, insomma, di grandi qualità e meriti. Ora, noi giravamo con lui sessantacinquenne, in dicembre, a Brooklyn, in una gigantesca fabbrica abbandonata. 20 gradi sottozero. Ricordo che la mattina si perdeva molto tempo per rendere utilizzabili gli obbiettivi che uscivano dalle loro scatole con i vetri ottici completamente appannati. Una delle scene che dovevamo girare quel giorno prevedeva che uno scagnozzo di Cosa Nostra, in uno scatto d’ira, riempisse di botte il vecchio impersonato da Michael. Vengo informato, poco prima e per caso da un assistente, che Michael aveva già avuto un infarto e soffriva di cuore. Sono inquietissimo. Si gira il primo ciak. La scena viene come doveva e io dico bene, basta così, grazie. Michael, accasciato su uno sgabello e ansimante, mi chiama vicino a sé e mi sussurra: “Giacomo, non è che dici basta, che ti va bene il primo ciak perché ti preoccupi per me?” Io rispondo che no, che davvero ero contento della scena e che non c’era motivo per ripeterla, data la violenza. Ma lui insiste: “Giacomo, questo è il tuo film, non devi pensare a me. Devi pensare solo al tuo film. Non ti preoccupare per me, sto bene. Se vuoi ripeterla, ripetiamola!” Non sono così facile alla commozione ma sentii che arrivavano le lacrime, forse Michael mi ricordava mio padre. Non ripetei la scena. 
Ultimo ricordo legato a questo film. In quegli anni, al Festival di Venezia, c’era una sessione, credo voluta da Gian Luigi Rondi, dedicata ai film per la televisione meritevoli del Festival. Il Cugino Americano era tra questi. Andai a Venezia per la proiezione e me ne ritornai a Roma il più presto possibile. L’idiosincrasia per folla, mondanità & annessi mi ha accompagnato per tutta la vita. Una settimana dopo suona il telefono: corri all’aeroporto, hai i minuti contati per il volo per Venezia, devi esserci stasera, hai vinto il Leone d’Oro per la televisione. A questo punto della vita professionale avevo deciso che potevo anche permettermi di ritirare eventuali premi e gratificare il narcisismo che, volere o non volere, ognuno di noi vive e nasconde più o meno bene. Dunque ubbidisco, ovviamente tanto sorpreso quanto contento e mi dispongo a impormi di godere di questo riconoscimento. Non ho nemmeno il tempo di pensare che forse ci vuole una cravatta e vado. Una volta arrivato, sono sul motoscafo, mi comunicano che il premio è ex-aequo con Ingmar Bergman (uno dei due registi mito, per me, insieme a Kurosawa). Il suo film in concorso era Il Segno. Penso di non essere degno di stargli accanto e vorrei tornare indietro. Bergman (non solo grande regista ma anche grande paziente psicosomatico che vivrà 89 anni) è/si sente malato, non ci sarà. Non ho ancora visto il suo film (storia nerissima di matrimonio e follia). Quando vengo chiamato sul palcoscenico, prendo il Leone, non dico una parola, soltanto “grazie” e scappo in albergo. Mia moglie ha trovato recentemente una fotografia di quella premiazione dove ho un’espressione tristissima: accanto a Bergman, presente o meno, mi sento una formica.

10. Anthony Quinn, Stefania Sandrelli, Ben Kingsley, Max von Sydow e altri grandi

Fui chiamato da un produttore (non la più gradevole tra le persone che producevano film) che diceva di voler lavorare con me. Gli proposi -parlo della seconda metà degli anni 80- una storia che avevo scritto su una violenza di coppia dove lui finisce per uccidere lei. “Interessante, forte, forse un po’ difficile per i distributori, il pubblico non vuole queste storie. Però prima o poi lo facciamo!” Questa fu più o meno la risposta e nel frattempo (aspettando il “poi” che non arrivò mai) mi comunicò che, da regista, avrei dovuto aiutarlo a risolvere un problema: aveva firmato un contratto con Anthony Quinn per girare un film su Stradivari, ma temeva il divo metà messicano e metà irlandese e non gli piaceva la sceneggiatura. Il liutaio cremonese aveva molti figli e anche Anthony Quinn: l’attore voleva lavorare con i suoi figli come aveva fatto il famoso fabbricante di violini e violoncelli e contrabbassi. Il produttore in questione mi proponeva dunque di dirigere il film e il grande attore che aveva iniziato la sua carriera dieci anni prima che io nascessi. La curiosità all’idea di lavorare con Zapata, Zorba il greco, Zampanò, Barabba eccetera eccetera eccetera e l’amore per la musica mi fecero dire di sì. Chiesi a Suso Cecchi d’Amico di riscrivere la sceneggiatura che non funzionava e lei scrisse un testo, così mi disse, “rosselliniano” intendendo che i fatti di una vita, di quella vita, anche i più insignificanti, erano il plot e il dramma del film. Io lo misi in scena con rispetto. Insieme a Tony Quinn e i suoi figli, nel cast, c’erano anche Valérie Kaprisky e la meravigliosa Sandrelli. Sì, attrice incredibile davvero, Stefania, non te ne accorgi sul set, mentre sta recitando, ma quando la vedi dopo, sullo schermo scopri che è successa una magia e che i personaggi che lei interpreta hanno una semplice, profonda, spirituale umanità che sbalordisce. Mi dispiace di non avere avuto altre occasioni di lavorare con lei.
La fotografia era di Tonino Delli Colli. Tonino Delli Colli era non soltanto un grande direttore della fotografia (con Sergio Leone, Pier Paolo Pasolini, Fellini, tra i molti altri grandi) ma anche un uomo schietto e autentico. Ricordo che il primo giorno delle riprese, subito dopo aver dato l’azione, sentii alle mie spalle un brontolio, un borbottio. Diedi immediatamente lo stop e mi accorsi che il borbottone era proprio Tonino che parlava con il capo elettricista. Ma come? Stiamo girando! Ho sempre preteso l’assoluto silenzio sul set. Più tardi, Tonino venne a scusarsi: dopo i set di Fellini dove il caos sonoro prima e durante le riprese era parte del gioco, aveva perso l’abitudine alla sacralità della presa diretta.
Anthony Quinn, come molti sanno, era un uomo e un attore tanto esuberante quanto generoso. Aveva una sedia da set molto alta. Ne fece fare una per me, della stessa altezza e mi voleva sempre seduto accanto a lui. Nei momenti di pausa, stavamo dunque vicini, in alto, come due uccellacci appollaiati sul filo e lui mi raccontava della sua vita (sogni, errori, donne, esaltazioni, dolori). Non ho un buonissimo ricordo/giudizio del mio film, ma del tempo passato accanto a Tony sì.
L’anno seguente mi proposero un altro film in costume, una coproduzione internazionale (tre ore per la televisione, un film di due ore per le sale). Realizzai uno dei pochi film che amo davvero tra quelli che ho fatto (e critico di meno): Una Vita Scellerata, tratto da La Vita, l’autobiografia dell’orafo e scultore fiorentino Benvenuto Cellini. Un libro che è stato giustamente definito come la prima documentazione in diretta dell’alienazione dell’artista. La sceneggiatura era di Vittorio Bonicelli, uomo straordinario per cultura ed educazione, al tempo funzionario RAI e, tra gli altri film, cosceneggiatore del Giardino dei Finzi Contini di De Sica, vincitore dell’Oscar al miglior film straniero. Chi vuole sapere di Benvenuto Cellini e anche di quello che la sua vita rappresenta per me (e per tutti quelli, volenti o no, che fanno del mestiere artistico la propria vita e fonte del pane quotidiano) può leggere il pezzo che ho scritto su di lui e che si trova nel Diario Pubblico di questo sito, intitolato “Furbo, presuntuoso e incazzoso. Un genio.
Dante Spinotti venne dagli Stati uniti e fece una splendida fotografia (stiamo, per ora invano, chiedendo il restauro del negativo), Gianni Quaranta era lo strepitoso scenografo e Nanà Cecchi la costumista. Raccontavamo il Rinascimento (e lo facemmo assai bene, come scrisse Moravia in una delle sue ultime recensioni). Fu una lavorazione esaltante e felice. Nel cast, Ben Kingsley, Max von Sydow, Sophie Ward, Ennio Fantastichini, Florence Pernel, Maurizio Donadoni e tanti altri bravissimi. Cellini era interpretato dal giovane attore francese di origine polacca Wadeck Stanczak, portato alla ribalta da André Téchiné nel film Rendez-vous che aveva vinto per la migliore regia al 38° festival di Cannes. Wadeck aveva doti d’attore fuori dal comune; purtroppo, problemi di salute hanno distrutto una carriera che si presentava brillantissima. Kingsley, che interpretava il governatore pazzo delle prigioni di Castel Sant’Angelo al tempo di Paolo III° Farnese, alla fine delle riprese non smetteva di abbracciarmi ringraziandomi di avergli fatto interpretare “il più magnifico pazzo immaginabile”. Quanto a Max von Sydow, attore feticcio del mio regista feticcio, che dire? Mai ho visto persona più discreta, dedita e umile. Su questo film (raccontato cronologicamente nella versione lunga televisiva e invece attraverso flashback nella versione per le sale) potrei riempire diverse pagine, ma non voglio annoiare oltre chi mi sta leggendo.

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11. Ritorno ai miei inizi: la letteratura

A dispetto della felicità dell’esperienza professionale nel realizzare Una Vita Scellerata, non erano per niente anni felici nella mia vita personale. Mi fermai e scrissi un romanzo (Fuori dal Cielo); quella dello scrittore era in fondo la professione che, da studente, dicevo di voler fare, i casi della vita mia avevano poi portato altrove. Non avevo più alcun rapporto con il mondo dell’editoria che in quel tempo, a differenza di oggi, guardava piuttosto male la gente di spettacolo. Dunque, finito il romanzo, scelgo tre o quattro editori che mi piacciono e faccio come avevo fatto trent’anni prima con le poesie spedite per posta a Fernanda Pivano. Metto in una busta il manoscritto con una breve lettera di presentazione e invio, senza troppe illusioni. Succede invece che l’editore Marsilio lo pubblica, ne farà due edizioni, e il libro vince il Premio Domenico Rea, il Premio del Primo Romanzo al salone del Libro di Torino e si classifica finalista al Premio Stresa di Narrativa
Seguiranno altri due romanzi (L’Amore nel Palmo della Mano, Mondadori, e 39 Colpi di Pugnale, Gaffi Editore); il quarto è quasi finito e, nel frattempo, ne ho buttato uno nella spazzatura. Chi è curioso della mia attività di romanziere può leggere qualcosa in questo sito nella sezione dedicata alla scrittura.

12. E al Cinema di nuovo

Ho girato un film “contro gli spettatori” come mi ha detto qualcuno, nel senso che la tematica dello stupro, all’inizio degli anni 90, era da evitare. Assai liberamente ispirato al discusso Diario di Uno Stupratore di Anna Maria Pellegrino (non è l’omonima food writer, maestra di cucina), il film è una coproduzione italo-franco-spagnola interpretato dal giovanissimo Roberto Zibetti, da Isabella Ferrari (che fu particolarmente intensa ed emozionante ed ebbe la nomination ai Golden Globes) e da Marisa Paredes. Con il giovane direttore della fotografia Roberto Forza (anche lui, per questo film, è stato nominato ai Golden Globes) abbiamo mescolato colore livido e bianco e nero girato con una Handycam. Cronaca di un Amore Violato mi ha fatto viaggiare molto. È stato infatti invitato a un gran numero di Festival (Berlino, Montreal, Mosca, Stoccolma tra gli altri) dove andavo, partecipavo ai dibattiti e raccoglievo storie dolorose di donne che, in lacrime dopo la proiezione, raccontavano vicende simili di violenze subite. Ho ritrovato un commento abbastanza recente su questo mio film ormai lontano, scritto da un docente di psichiatria all’Università di Napoli: “Battiato firma una pellicola coraggiosa che, al tempo, scandalizzò per il tema trattato e spaccò in due la critica. Piuttosto che narrare la solita storia di degrado urbano ed ambientare la vicenda tra gli emarginati ed i coatti di periferia, il regista affida il ruolo dello stupratore al classico ragazzo della porta accanto che vive in un quartiere borghese di Roma e che, per tutto il film, non ha mai un attimo di pentimento o di rimorso per i delitti di cui si macchia.” Oggi non farei questo film come l’ho fatto allora. Ma forse, nel suo tempo, con tutti i suoi limiti, non è stato un film inutile come se ne facevano e fanno tanti.

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13. La Piovra (8 & 9), Il Giovane Casanova, Il Segreto di Thomas

Seguì un’allegra (si fa per dire) vacanza televisiva. Sergio Silva (che mi aveva fatto debuttare, come ho raccontato) mi chiede di girare i due capitoli della Piovra (8 & 9) ambientati negli anni ’50 e che rappresentano i prequel della famosa Serie. Non posso dirgli di no. Lavoro con impegno e divertimento ed entra nel cast, in un ruolo importante, Luca Zingaretti che mia moglie Anna mi aveva portato a vedere a teatro e presentato. Devo a lei, da quel momento in poi, un aiuto prezioso sia nei casting di tutti i miei film che nel lavoro di preparazione e coaching con molti degli attori con cui ho lavorato. Ma c’è di più: Anna ha vegliato, suggerito, corretto tutto quello che ho scritto. Lo ha fatto, lo fa e lo farà sempre. Quando non l’ho ascoltata, ho sbagliato.
Insieme all’amico Roberto Forza alla fotografia, scorribandiamo per vari mesi in Sicilia. Per la terza volta “giro” un film in questa isola greca, normanna e araba alla quale mi legano le radici paterne. Una delle due Piovre vinse a Montecarlo il Prix de la Critique e la Nymphe d’Or de la Meilleure Fiction e vissero “quasi” tutti felici e contenti.
Ricordo che molti anni dopo incontrai il regista e drammaturgo russo Ivan Wyrypaev (aveva vinto il Leone d’Oro a Venezia con Euforia), e quando seppe di quelle Piovre mi abbracciò e baciò. Erano state, per lui studente di scrittura e regia, una scuola fondamentale. Così si era espresso. Lo guardai scettico e non gli rivelai che a suo tempo, quando quelle Piovre erano state messe in onda, una giovane regista italiana che non conoscevo ne disse, su un giornale, tutto il male possibile.

Segue Il Giovane Casanova interpretato dal (giovane) Stefano Accorsi e dove compare, ventenne e meravigliosa, Cristiana Capotondi. Si trattava di una coproduzione italo-francese anch’essa prodotta da Roberto e Matteo Levi con i quali ho sempre lavorato in grande amicizia e armonia. 
Fu una gioiosa (almeno per me e per chi ha lavorato con me) e fedele trasposizione dei primi capitoli della Histoire de ma vie di Giacomo Casanova. Scrissi le due sceneggiature insieme a un giovane autore, Nicola Lusuardi. Girammo la prima parte a Venezia, la seconda a Parigi con due troupes diverse e diversi collaboratori. Volevo due atmosfere differenti sia nello spirito del racconto che nella luce e nelle atmosfere, così come differenti erano i due mondi narrati. Considero le cosiddette Memorie di Casanova (grosso volume letto male o non proprio letto da molti che ne parlano) un grande libro di storia e di costume. La prima parte del racconto della sua vita, la suo giovinezza per l’appunto, è piena di curiosità, leggerezza, intelligenza e vitalità e andrebbe fatta leggere nelle scuole. Casanova è invece un personaggio assai odiato (Fellini è tra gli haters), mistificato e spesso subisce una damnatio memoriae che considero davvero ingiusta.

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Nel 2002 giro un film in due episodi tratto da un romanzo francese (di Loup Durand), Daddy. In Italia sarà Il segreto di Thomas, nei paesi anglofoni Entrusted, in quelli di lingua tedesca Im Visier des Bösen. Interpreti magnifici: Klaus Maria Brandauer, Thomas Sangster (molti lo conoscono per Tata Matilda, Love Actually, Il Trono di Spade e La Regina degli scacchi, per citarne solo alcuni, ma allora era poco più che un bambino), Giovanna Mezzogiorno (mi emozionava non soltanto per come recitava ma anche perché ogni volta che la guardavo vedevo suo padre, vedevo sua madre incinta di lei quando avevo lavorato con Vittorio), e poi Stephen Moyer, Ken Duken, Claire Keim. 
Thomas Sangster, vincendo come miglior attore a Montecarlo, salito sul podio dichiara: “È il più bel giorno di tutta mia vita!” In sala fu un gran momento di applausi e ilarità: Thomas aveva da poco compiuto 13 anni. 
Durante il casting, mi avevano messo sul chi vive: “beware Brandauer!” Noto per il carattere turbolento, spesso contestatore di tutto e tutti aveva, mi raccontavano, fracassato per rabbia un set. Con lui nel cast, l’assicurazione del film diventava più costosa. Brandauer aveva letto la sceneggiatura e il suo agente ci aveva riferito che gli era piaciuta. Prima di decidere, chiesi di andare a incontrarlo a casa sua, a Vienna. Volevo parlargli di come pensavo di raccontare quella storia e di come ero abituato a pretendere, sui miei set, rispetto e armonia, ma volevo soprattutto leggere con lui il copione: se ci sono dei passaggi che non ti piacciono, battute che non ti convincono o altro me lo dici adesso e ne discutiamo. Sul set non ci sarà né il tempo né l’animo giusto per dibattere, ma soltanto per fare e fare bene. Fu una lavorazione piacevolissima nel sud della Francia, senza nessuno screzio, e Klaus Maria (che tra l’altro era mesmerizzato dalla bravura del bambino Sangster con cui, nel film, si confrontava e sfidava a scacchi) fu, come al solito, un immenso attore e si prese una nomination ai Romy Awards.

14. Karol

Feci quindi un’esperienza di sceneggiatore e regista davvero particolari. Il produttore Pietro Valsecchi mi aveva proposto di dirigere una Miniserie sulla vita di Karol Woytjla, allora 84enne. Lo ringraziai e rifiutai dicendogli che non ero la persona giusta: non avevo seguito con particolare attenzione la storia del Papa anche se ero ben cosciente del suo ruolo nella “caduta del Muro”, conoscevo sì, discretamente, la religione cattolica ero stato, sì, alle scuole dei gesuiti ma ero e sono convintamente ateo. 
“Proprio per questo, devi farlo tu.” 
“Grazie ma no, davvero.”
Pietro Valsecchi non è tra coloro che accettano facilmente un No come risposta. Insiste. E io insisto nel rifiutare. E lui nel rifiutare il rifiuto. Alla fine, per curiosità e per rispondere in maniera più articolata (anche a me stesso) al rifiuto, leggo non quello che era stato scritto su Giovanni Paolo II° ma quello che lui stesso aveva scritto quando era giovane. Le poesie e i drammi giovanili nei quali erano molto forti i temi del dolore e del Male. Mi sono reso conto che si sarebbe potuta raccontare la storia di un ragazzo orfano di madre che faceva l’attore, studiava filologia e letteratura, era fidanzato e si apprestava a una vita di famiglia dedicata alle lettere e al teatro; l’avere attraversato gli orrori della guerra gli aveva fatto decidere di abbandonare tutto e dedicare la propria vita a difendere sofferenti e innocenti. Un intelligente giornalista, Gianfranco Svidercoschi, che conosceva da molto vicino la vita di quel prete polacco ex attore e scalatore di montagne diventato Papa, mi raccontò non pochi eventi che rendevano il racconto della sua vita una occasione interessante ai miei occhi di laico e sfatavano luoghi comuni e interpretazioni travisate su di lui che ancora esistono oggi. Posi due condizioni: la prima, che l’attore dovesse essere polacco e non una star americana come si ventilava. Questo, perché avevo capito che Karol Woytjla era, prima di tutto, un patriota; era, sotto tutti i punti di vista, radicato nella storia culturale, politica e morale della sua terra. E così fu con la scelta di Piotr Adamczyk che divenne star e che lo stesso segretario e amico della vita di Giovanni Paolo cominciò, dopo la morte del Papa, a chiamarlo Karol. Secondo, volli essere certo che non ci fossero, sul film, censure o interferenze vaticane. Svidercoschi mi fece incontrare un giovane segretario del Papa il quale mi disse più o meno così: “Il Santo Padre mi manda a dirle che essendo lui una figura pubblica, lei è libero di fare il suo film come vuole. Nulla le viene imposto ma se ha bisogno di informazioni ce le chieda e saremo ben lieti di dargliele.” E così fu. Dissi di sì a Valsecchi e partimmo per la Polonia per una complessa avventura, insieme a un bravo direttore della fotografia, Gianni Mammolotti, e a un attore italiano con il quale mi piaceva molto lavorare, Ennio Fantastichini. Anche a proposito del lungo percorso che furono le riprese di queste sei ore di film, avrei infinite storie umane e professionali da raccontare ma non vorrei che il mio sproloquiare dilagasse oltre i limiti tollerabili. Perciò andiamo avanti.

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15. In Francia

Sollecitato da proposte molto interessanti, mi ero trasferito con famiglia a Parigi dove finii per vivere diversi anni. Tra i progetti ai quali ho lavorato in Francia, mi piace citare due film che realizzai per Canal +, due film di impegno storico-politico, basati su fatti accaduti. Due film ai quali sono molto legato: Resolution 819, che raccontala ricerca della verità e dei responsabili delle stragi in Bosnia, interpretato da Benoit Magimel e Karolina Gruszka, e L’Infiltré (The Lying Game) interpretato da Jacques Gamblin e Mehdi Dehbi (che sarà poi il protagonista di Messiah). L’Infiltré racconta la vera storia della caccia al terrorista palestinese Abu Nidal (fine anni 80), le ragioni di quel terrorismo e il cinismo dei servizi segreti francesi in questa operazione. 
La fotografia di tutti e due i film fu di un direttore slovacco formatosi alla scuola del cinema di Praga: Igor Luther. Era autore della fotografia del Tamburo di Latta di Schloendorff e del Danton di Wajda. Fu, quello mio con lui, davvero un ricco sodalizio di due tormentati individui che amavano quello che facevano e la vedevano alla stessa maniera. Purtroppo, Igor non curava la sua salute.
Resolution 819 vinse il premio del pubblico al Festival di Amnesty International all’Aja, e quello alla 3° edizione del Festival del Cinema di Roma nel 2008 (ma non venne distribuito in Italia: troppi cadaveri? Troppo dolore?); ricevette anche un premio conferito dal Senato francese. Una sola cosa dico, delle tantissime che vorrei dire, a proposito di questo film. Quando, con il produttore Georges Campana, fummo invitati a proiettarlo nella grande piazza di Sarajevo gremita, alla fine della proiezione, Georges e io fummo letteralmente coperti dai fiori che ci portavano le madri, le vedove e le figlie delle vittime del massacro che avevamo raccontato. Tutti e due noi, uomini fatti e vaccinati, scoppiammo in singhiozzi irrefrenabili. Non ce ne vergognammo. C’erano tutte le ragioni per singhiozzare per quel male e tragicamente ce ne saranno ancora quando si racconteranno le stragi e il dolore di ora.
L’Infiltré (The Lying Game, nella versione internazionale) fu nominato come Best Drama agli International Emmy Awards nel 2012. Neanche questo film è stato distribuito in Italia.

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Mi arrivò di sorpresa, da parte del Ministero della Cultura francese (era ministra Aurélie Filippetti e presidente François Hollande), il conferimento dell’Ordre des Arts et des Lettres.

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Ritrovai poi l’amico produttore Matteo Levi: aveva comprato i diritti di un romanzo scritto da Simon Wiesenthal (Max e Hélène) nel quale racconta come, in un caso, aveva scoperto un criminale nazista a cui dava la caccia, ma non lo aveva smascherato. Matteo mi propose di scrivere la sceneggiatura e dirigere questo piccolo film per la Rai. Così avvenne.
Il mio amato Ennio Fantastichini era Wiesenthal. Carolina Crescentini, Alessandro Averone e Ken Duken erano gli altri super bravi protagonisti.

16. Il Nome della Rosa

Siamo arrivati al rientro in Italia, nel 2017, e ai due anni dedicati alla Serie da Il Nome della Rosa che, con coraggio e passione, Matteo Levi voleva costruire. Eleonora Andreatta, allora alla direzione della fiction Rai, sosteneva il progetto con la sua intelligente determinazione. La Serie avrà, in corso d’opera, coproduttori tedeschi e distributori americani che ne permetteranno, finanziariamente, la produzione. Umberto Eco era assai deluso dal film di Jean-Jacques Annaud con Sean Connery che pure aveva avuto grande successo (e meritatamente, per la qualità della sua realizzazione). Ma il film metteva in scena il thriller attorno al quale il romanzo era costruito, mancavano i temi per cui Eco, quel romanzo, l’aveva concepito e scritto. Noi avevano 8 ore, dunque il tempo e lo spazio necessari a trasporre i contenuti di un’opera che nel tempo era diventata un’icona letteraria. Per contratto, una volta vista la Serie finita e montata, Eco poteva o togliere il suo nome nel caso non avesse gradito la trasposizione (trent’anni prima, veduto io primo montaggio del film, aveva preteso che nei titoli fosse scritto “da un palinsesto per un romanzo…”). Nel contratto con Matteo Levi, nel caso il risultato gli fosse sembrato così così, poteva esigere la dicitura “liberamente tratto da…”. Soltanto se le 8 ore della Serie fossero state fedeli allo spirito e ai temi che lo avevano motivato e che gli stavano a cuore, si sarebbe potuto scrivere nei titoli “dal romanzo di…” Quando Matteo Levi mi chiamò e mi propose di imbarcarmi nell’impresa, lo sceneggiatore Andrea Porporati aveva già proficuamente lavorato con Eco ma, nel frattempo, il nostro grande autore era purtroppo mancato. Era stato chiamato un bravo sceneggiatore inglese per “internazionalizzare” le sceneggiature, ma ahinoi a scrittura non aveva proprio funzionato. Cominciammo comunque la preparazione e la composizione complessa del cast dove volevo, nei limiti del possibile, che la nazionalità degli attori corrispondesse alla nazionalità dei personaggi immaginati da Eco. Così fu anche con la scoperta del giovane tedesco Damian Hardung nel ruolo di Adso. La casa di produzione Palomar, alla quale Matteo Levi si era associato, mi presentò un direttore della fotografia il cui lavoro mi era molto piaciuto, l’irlandese John Conroy: fu uno splendido e affettuoso sodalizio.  
La preparazione era cominciata, ma nel frattempo mi avevano domandarono (su sollecitazione dei distributori) di rilavorare alla scrittura. Non si chiedeva una “pulitura” ma una semi “riscrittura”. Ero sopraffatto. John Turturro aveva accettato di interpretare Guglielmo da Baskerville. Accadde allora che di giorno lavoravo in ufficio mentre di notte scrivevo e, via Skype (Turturro vive a Brooklyn), discutevo con lui film e personaggio. John si immerse anima e corpo nel suo ruolo (si prese pure un coach per la pronuncia) e si mostrò così propositivo e impegnato che fui più che felice di inserire il suo nome tra quelli che avevano partecipato alla sceneggiatura. Quanto alla sua interpretazione, essa è, a mio avviso, sbalorditiva per l’aderenza al personaggio immaginato da Eco.
Il racconto della lavorazione della Serie (dove ero contemporaneamente sceneggiatore, showrunner e regista) potrebbe riempire un piccolo romanzo insieme epico, comico, e con momenti grotteschi ma anche dolorosi. Me/ve lo risparmio. Mi fa piacere citare l’attore americano Michael Emerson (tutti lo ricordano almeno per il ruolo di Benjamin Linus in Lost). Michael (interpretava l’Abate) scrisse sul suo sito una serie di post che potrei più o meno condensare così: “Sono l’uomo più felice del mondo: sono in Italia, a Roma, e recito un magnifico ruolo nel Nome della Rosa. Sono circondato da grandi colleghi internazionali ma devo dire che sono “steso a terra” (“grounded” era il termine usato) dalla bravura degli attori italiani.” Si riferiva in primis ai tre principali, Fabrizio Bentivoglio, Stefano Fresi e Greta Scarano ma, mi disse, la qualità del lavoro degli altri italiani, anche nei ruoli minori, lo aveva “sbalordito”.
Per chiudere il capitolo “firma” di Eco nei titoli di testa della Serie, riferisco questo. Una volta terminata l’edizione degli 8 episodi, Matteo Levi affittò per un giorno una sala cinematografica a Milano per proiettarli tutti, quattro ore la mattina, pausa per il pranzo, e quattro ore nel pomeriggio. Era convocata tutta la famiglia Eco, i suoi editori, i loro consulenti storici. Ricordo ancora quel giorno dell’attesa del giudizio, io e il mio caro Steve O’Connell, il montatore, chiusi nella saletta affacciata sulla via Cassia dove avevamo lavorato per mesi; dalla finestra potevamo osservare degli incongrui pappagalli che battibeccavano rumorosamente sui rami di un pino marittimo. Il responso fu il migliore possibile. Erano entusiasti del risultato e della fedeltà allo spirito di Eco; ci autorizzavano dunque a scrivere, nei titoli, “da un romanzo di Umberto Eco”. Così è stato. La Serie ha vinto il Golden Globe ed è stata vista, mi dicono, in oltre 180 paesi. 

17. E poi...

Durante il Covid lavorai con un produttore americano a un progetto a cui tenevo molto. Scrissi, studiai, mi documentai, riscrissi e ancora e ancora, sempre più appassionato. Alla fine, il tutto finì nel fondo di un cassetto telematico. Non è stata la prima volta. Non ne parlerò. Dico soltanto che se invece di fare la storia delle opere fatte si dovesse fare quella dei film scritti e non realizzati, dei libri pensati e non finiti sulla pagina, delle sinfonie udite nella testa ma non diventate note, dei quadri soltanto sognati o bruciati eccetera eccetera, beh credo che sarebbe un po’ come la prima proprietà della moltiplicazione in matematica: variando l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Un grande tycoon hollywoodiano si è espresso più o meno così: se avessi detto di no ai film ai quali ho detto di sì e di sì a quelli a cui ho detto di no, oggi mi ritroverei come sono: con lo stesso bilancio di perdite e di guadagni, di sputi e di applausi. 

Eccoci al 2024, ad osservare con spavento la stupidità e la violenza di molti uomini al potere e di coloro che li seguono. È questo il tema principale del monologo in 3 quadri che ho scritto per il teatro: Dioggene. Ha debuttato nel dicembre 2023 con uno Stefano Fresi da mozzare il fiato. 

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To be continued… almeno ancora per un po’…

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