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39 COLPI DI PUGNALE

Prima metà del XIX° secolo in Sicilia. Una donna appartenente all’élite dei commercianti inglesi che posseggono gran parte delle ricchezze dell’isola viene massacrata nella sua villa. Una ragazza siciliana, governante dei figli della vittima e amante del marito, viene accusata dell’assassinio. Ma la figlia diciassettenne della signora uccisa si auto accusa del delitto. Un giovane Procuratore indaga. Inizia, per lui, una discesa all’inferno.

da IL CORRIERE DELLA SERA

(Ermanno Paccagnini)

Passioni siciliane. Un gioco di delitti e di generi letterari… A Battiato preme il calarsi in trame di solitudine, amore-morte, infelicità e sofferenza… e soprattutto il disfarsi di amori che si traducono in odio. Un racconto che si legge scorrevolmente, con scrittura colta, ben gestito nei dialoghi…

da LA REPUBBLICA

(Salvatore Ferlita)

… Questo romanzo di Giacomo Battiato è tutto fatto di descrizioni che si fanno, agli occhi del lettore, immagini tridimensionali, corpi in movimento, carne che pulsa, luce che abbaglia...

da MANGIALIBRI

(Francesco Scarcella)

Terzo romanzo per l'eclettico regista Giacomo Battiato. Un testo intenso, ricco di suggestioni, di storia, di paesaggi, di amore tormentato, di amore impotente. Un romanzo che parte in sordina, come tanti noir. Un omicidio efferato, un giudice che indaga, prove schiaccianti, intrighi familiari. Il caso sembra fin troppo banale e, tutto sommato, si potrebbe risolvere in una giornata. Ma poi i colpi di scena spuntano fuori all'improvviso, uno dopo l'altro, inscenando un singolare paradosso: il tempo sembra scorrere più lentamente durante la prima notte d'indagine che nei mesi successivi. Fino ad arrivare alla definitiva soluzione del caso: imprevista, inaspettata, straziante perché si palesa solo dopo una serie di calvari. Un finale dove il meccanismo di “rimozione” giocherà un ruolo decisivo. Battiato è poi maestro nel restituirci, tra una vicenda e l'altra, le meraviglie della Sicilia antica: “nelle cui valli non si poteva andare a caccia perché i cani non riuscivano a seguire la pista tale era, per tutto l'anno, la violenza dei profumi.”

da VANITY FAIR

(Irene Bignardi)

Un giallo in piena regola ma fuori dalle regole. Giacomo Battiato oltre che autore di due romanzi è soprattutto regista di sontuosi drammi storici per il cinema e la tv. E la sua capacità di ricreare il passato si vede anche nel romanzo “39 colpi di pugnale”.

Due frammenti...

Alta e isolata su un promontorio fra Trapani e Marsala, una fortezza in pietra viva domina una distesa di vigneti. Appartiene a una ricca famiglia inglese, gli Ashby, che l’hanno trasformata in una splendida dimora. A occidente, oltre il bianco delle saline, un orizzonte di mare. Quel mare che infinite volte si era tinto di rosso con il sangue dei tonni, ma soprattutto con quello degli uomini perché la Sicilia, per migliaia di anni, ha vissuto l’antica maledizione che la condannava a scacciare un padrone procurandosene un altro.

Oggi però, sabato tredici agosto 1836, quel mare è di un limpido turchese, di una luminosità gioiosa, appena increspato dallo scirocco che soffia leggero oltre l’isola di Mozia.

È l’alba. Sono passate le cinque da pochi minuti. Le cicale non hanno cominciato a cantare né si odono ancora le grida dei gabbiani. Un silenzio sospeso, di attesa, circonda le mura senza aperture del baglio degli Ashby. Il primo raggio del sole taglia i tetti, scavalca le lastre di pietra, si riflette nel pulviscolo dell’aria e trafigge un ficodindia che si alza muscoloso, appoggiandosi al muro del cortile padronale. Di un verde argento intriso di cera, carico di frutti sanguigni, si è sviluppato oltre la norma, come una di quelle piante delle favole che salgono magicamente fino a bucare le nuvole. Un fiore giallo, l’unico sopravvissuto nell’estate, corona la sua pala più alta.

Nel cortile, una folata improvvisa di vento solleva da terra un foulard di finissima seta bianca. Ondeggiando, sale leggero lungo il muro di cinta. Sta per oltrepassarlo e volare via tra i vigneti quando s’impiglia nelle spine del ficodindia. Con un fulmineo volteggio si attorciglia al fiore giallo mentre sembra dibattersi per liberarsi. Invano. Nuove spine lo trapassano e lo imprigionano. Nel centro del foulard, si allarga, ancora umida, una macchia di sangue.

Quasi che i muri avessero parlato -mentre erano i suoi nervi ad avere una capacità prodigiosa di percepire il tradimento- Emma aveva cominciato a insultare Angelica ogni volta che la incontrava, poco importa chi fosse presente. Il suo insulto preferito era “Non sopporto il tuo odore, puttana!” Era iniziato un tormento. Un tormento al quale nessuno dei tre attori voleva sottrarsi. Malgrado le angherie, gli insulti e le pazzie della signora Ashby, malgrado Angelica si rendesse conto che non c’erano né speranze né progetti tra lei e Robert, malgrado non ci fossero mai state promesse, né discorsi di anime e di destini, Angelica sopportava ed era felice a dispetto di tutto. Non si poneva la domanda se Robert meritasse o no una così intensa dedizione amorosa, le bastava sentire che accanto a lei lui fosse liberato dalla sua malinconia maligna. Soltanto questo? Sì, soltanto questo le bastava. E rifiutava di sentirsi colpevole per quella relazione. Colpevole forse nella forma ma non nella sostanza.

In una delle rare cene in cui tutta la famiglia era riunita, Mary aveva appena portato in tavola il dolce, una charlotte alla russa, fredda di ghiacciaia e coperta di zabaione. Emma si era servita per prima, poi Angelica che con un sorriso, aveva passato il piatto a Robert. Lui, ricevendo il piatto, le aveva sfiorato la mano. Lo sguardo di Emma aveva colto il sorriso di lei e il gesto di lui. Aveva detto, gentile, ad Angelica: “Lei ama i miei figli vero?”

Angelica, sorpresa: “Certo. E molto.”

“Voglio dire, quello che fa, non lo fa soltanto perché è pagata per farlo?”

Robert, quasi sottovoce: “Emma, per favore...”

Angelica aveva risposto con calma e con dolcezza: “I suoi figli sono meravigliosi. Occuparmi di loro non è un lavoro, è la cosa più bella che potesse capitarmi. Non potrei chiedere di più alla vita.”

Juliet, infastidita dalla madre, ostentatamente aveva preso una mano di Angelica e l’aveva baciata.

Emma aveva chiesto, con apparente pazienza: “Lei è mai stata innamorata?”

Angelica aveva negato con la testa.

Emma insisteva: “Perché non è mai stata innamorata?”

“Perché non voglio.”

“Nessuno può privarsi del diritto di amare.”

“Infatti, amo i suoi figli.”

“Come se fossero suoi?”

Angelica aveva a lungo osservato lo sguardo di Emma, infine aveva sorriso ai ragazzi: “Come se fossero miei. Ma non dimentico -e loro non devono dimenticare- che la madre è lei.”

“Non sogna una famiglia sua, un uomo suo?”

“Sono felice così.”

Emma, con un tono di scherno: “Felice?” E aveva aggiunto: “Glielo dico io com’è lei! Lei è finta. Finta, furba e cattiva. Solo testa. E fica. Niente cuore, niente pancia.” Robert, che aveva trangugiato il dolce senza sentirne il sapore, finalmente era intervenuto: “Adesso basta davvero!”

Emma, come se non l’avesse udito: “In ogni caso lei ha avuto degli amanti, voglio dire, ha conosciuto l’amore carnale? O non le piace?”

Il piccolo Willie leccava il mascarpone nel suo piatto. Gli altri figli avevano invece smesso di mangiare e le loro pupille correvano avanti e indietro tra la madre e Angelica. Angelica, invece di rispondere, aveva messo in bocca un pezzetto di dolce e lo masticava.

“Insomma, le piace o non le piace?”

Robert aveva sbottato: “Signorina, nel contratto che abbiamo firmato mia moglie non mangia con i bambini. D’ora in avanti la prego di attenersi a quegli accordi!”

Angelica, deglutendo, aveva annuito.

Emma, rivolta educatamente ad Angelica: “Signorina, dica a mio marito che non è lecito calpestare i sentimenti altrui. Lui lo sa fare molto bene, è il suo divertimento principale, dopo quello di fare i soldi. Gli insegni a comportarsi in maniera decente! Ma che sto dicendo? Come può lei, sporca puttana, a insegnare la decenza?!?”

Angelica si era alzata.

Emma non aveva finito: “Cosa le dice mio marito? Che ha una moglie ma preferisce la sua compagnia, le sue attenzioni e la sua--?” Con un bel sorriso indicava nel centro del corpo di Angelica: “Cosa le dice il bel Robert? Che i bambini hanno una madre, ma lui preferisce affidarli a lei, più giovane e più mansueta? Che ha più fiducia nella sua esperienza, nel suo attaccamento, nel suo giudizio, nella sua tenerezza? Eh? È questo che le dice?”

Robert era rimasto muto, di pietra. Anche quando Emma lo aveva incalzato: “Lei che cosa ti dice quando ti succhia? Che non sono più abbastanza giovane per te, che sono diventata troppo brutta, troppo ridicola, troppo lamentosa, troppo noiosa? Sai come diventerà quella? Una pesante siciliana dalla pelle grassa, di origini rozze, un animale che ti vergogneresti di portare a passeggio, anche se legato al guinzaglio.”

Angelica, rivolgendosi alle ragazze e ai bambini: “Andiamo.”

Willie, con il suo linguaggio infantile che spezza le parole aveva strepitato: “Il dolce, voglio il mio dolce!”

Angelica aveva afferrato il piatto e aveva preso il bambino per mano: “Te lo porto di sopra.” E agli altri: “Portatevi i piatti di sopra.”

Emma non la lasciava: “Sa, quando mi stavo innamorando di Robert ero certa che mi avrebbe reso molto infelice. Sapevo anche che nessun’altra infelicità mi sarebbe stata meglio.”

Juliet, alzandosi, aveva fatto cadere per terra un piatto, di proposito. Bertha l’aveva imitata. Emma aveva accusato l’infrangersi della porcellana con dei semplici battiti di ciglia mentre continuava a parlare: “Sapete, bambini, qual è la più passionale manifestazione dell’odio? L’odio tra marito e moglie. È nella tradizione. Non abbiate paura. Guardate vostra madre e vostro padre e imparate! Così, quando verrà il vostro turno, sarete preparati ad affrontare la parte insopportabile della vita!”

Lo sguardo di Robert alla moglie era, effettivamente, uno sguardo di odio. Immobile, muto, un bicchiere di vino stretto nel pugno.

Emma lo fissava: “Il vero mistero è che io ti desideri, che ti abbia detto milioni di parole d’amore. Che ancora te ne dica. Perché?”

Angelica, calma e ferma: “Io e i ragazzi adesso andiamo.” Si era mossa con i ragazzi ma Emma era balzata in piedi e la tratteneva per il vestito: “Quando una donna è cattiva emana un brutto odore. E non c’è profumo che sappia nascondere questa sua puzza. Cosa si è messa? È francese quest’odore. Con che soldi si è pagata un profumo di Guerlain?”

“Non mi tocchi!”

Emma, lasciandola: “Quali che siano i diritti che lei crede di avere acquisito nel trattare il padre dei suoi allievi, io non tollererò che si permetta di istigare i miei figli contro la loro madre!”

Angelica aveva spinto i ragazzi e le ragazze verso la porta: “Io non istigo nessuno contro nessuno. Io educo i suoi figli, come lei e suo marito mi avete chiesto di fare.”

Emma le camminava dietro, alzando la voce: “Mio marito, sì. Io amo mio marito. Se lo ricordi. Quell’amore che lei non conosce. Io sono lui. Sono donna e uomo. Sono dentro la sua pelle. Sento i suoi organi, anche quelli che non ho! Anche quelli che lui usa con lei! Non si faccia illusioni, non fanno parte dei suoi diritti!” e così dicendo le aveva sputato in faccia. Angelica la fissava. Non diceva nulla, non si era pulita. Aveva spinto fuori i ragazzi e si era chiusa la porta alle spalle.

 

Robert aveva stretto il bicchiere di cristallo che teneva tra le mani con tale forza da mandarlo in frantumi. Si era tagliato. Sangue e vino avevano macchiato la tovaglia.

“Verrà un giorno...” gli aveva detto Emma, “... in cui vorrai chiedermi di perdonarti. Forse sarà troppo tardi. Forse non vorrò più. Forse non sarò più in grado di farlo.” Aveva bevuto, lentamente, tutto il suo bicchiere di vino fino all’ultima goccia. Aveva quindi frantumato anche lei il bicchiere contro lo spigolo della tavola e, brandendo la grossa scheggia di vetro che le era rimasta in mano, aveva concluso: “Devi cacciarla prima che io la violenti con questo! Licenzia la puttana, poi ci separiamo.” Aveva sorriso, un brutto sorriso, nero. E, di colpo, era caduta a terra svenuta.

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